L'opinione pubblica si aspetta stravolgimenti dalla morte di Kim
Jong-Il, ma cambiamenti effettivi dello status quo appaiono
improbabili
La morte del 'Caro Leader' ha suscitato negli analisti un più o
meno condiviso auspicio libertario e democratico. Di Kim Jong-Un non
si conosce bene neppure l'età, eppure gli opinionisti di mezzo mondo
non fanno altro che ripetere, tra le altre cose, che è un fan
dell'NBA, che ha studiato in Svizzera o che è confucianamente troppo
giovane per assumere il comando, come se questo bastasse a far
prevedere un indebolimento e quindi una svolta nel regime autoritario
di Pyongyang. Appare necessario fare un leggero passo indietro. Delle
condizioni del popolo nordcoreano si dice molto, il che equivale a
non sapere nulla: internet oscurato, il culto dei due defunti Kim
come divinità terrestri, l’incoscienza del mondo esterno né
tanto meno di quanto accade a loro stessi.
Lo scenario internazionale che crediamo di conoscere è, però,
altrettanto poco trasparente: un rischio calcolato che ci appare al
limite con una lucida follia, quando non con un dissennato suicidio
globale. In tutto ciò c'è solo una parte di verità. Se
da una parte agli USA interessa molto che all'altezza del 38°
parallelo si tenga alta la tensione così da non dover smobilitare le
sue truppe da un territorio cosi strategico come Seoul, dall'altra la
Corea del Nord sente la propria indipendenza minacciata più
dalla Cina che dagli stessi Stati Uniti, e per questo Pyongyang ha
più volte manifestato la
sua volontà di avvicinamento e di normalizzazione delle relazioni
chiedendo colloqui bilaterali. Di fatto i nordcoreani sono spinti tra
le braccia della Cina per disperazione, poiché messi all'angolo
dalla quasi totalità della comunità internazionale che a
questa si rivolge costantemente
per fare da intermediaria
con Pyongyang, mentre i cinesi sono evidentemente anche loro propensi
a preservare uno status
quo che non ne
destabilizzi la supremazia nello scacchiere estremorientale.
Una tensione, dunque, che piace:
gli episodi di violenza tra
le due Coree rispondevano ad una dinamica di politica interna. Si
sapeva che Kim Jong Il non avrebbe vissuto a lungo, e l'ala militare
del governo nordcoreano ne ha verosimilmente approfittato per non
rischiare di veder cambiare le cose, considerato che (e in pochi lo
ricordano) dalla morte di Kim Il Song nel 1994 erano stati fatti
molti passi avanti e molte aperture da parte del 'Caro Leader' sia
nei confronti del Sud che di tutta la comunità internazionale. Porte
puntualmente chiuse in faccia, tanto per tenersi un comodo
nemico-spauracchio pronto all'occorrenza (specie da parte degli USA).
Kim Jong-Un ha incassato
automaticamente la fedeltà del
suo popolo, ma rappresenta certamente un'incognita: prima di lui suo
padre, che veniva da una assai più lunga e dura formazione, seppe
comprendere ed incanalare le volontà della gente, a partire dalla
divinizzazione della figura del 'Grande Leader', Presidente Eterno.
Il popolo può essere
l'unica variabile impazzita di questa equazione: una stretta meno
forte sul controllo dell'informazione potrebbe essere, per i vertici
del regime, l'errore
e dare il via a mobilitazioni nello stile della Primavera
Araba. Ma il
condizionale è d'obbligo: è impossibile misurare quanto
possa sopportare l’indigenza un popolo così lontano dal nostro e
non va dimenticato che nel Juche dei Kim si è trovata
un'identità nazionale che la storia aveva sempre negato alla Corea.
Senza, però, volersi addentrare in ipotetiche psicanalisi
collettive, è assai improbabile
che le gerarchie militari lascino al 'Brillante Compagno' (questo
l'appellativo del prossimo leader nordcoreano) la possibilità di
prendere decisioni tali da intaccarne
il potere.
L'unico compromesso possibile potrebbe venire da un avvicinamento economico ed istituzionale del Nord alle condizioni del Sud tramite un lento processo di adattamento, ma oltre alla volontà politica reciproca ci sarebbe bisogno di un atteggiamento più conciliante anche da parte della comunità internazionale, USA su tutti, che invece preferisce tenere la Corea del Nord nel suo status di isolamento e sussistenza. Nuove speranze vengono dai recenti colloqui (maggio 2011) di Pechino tra Hu Jintao e il defunto Kim Jong Il: dal 2003, infatti, le sei potenze interessate (Seoul, Pyongyang, Pechino, Mosca, Tokyo e Washington) avevano aperto un tavolo per gestire collegialmente le tensioni e gli avvicinamenti tra le due Coree. Proprio la issue nucleare era stata uno dei principali motivi di fallimento dei colloqui, interrotti nel 2008, e che sembravano destinati a non riprendere. La recente riapertura, ottenuta ancora una volta mediante intermediazione cinese, risponde all'esigenza nordcoreana di uscire dal suo isolamento, ed è l'ennesima voce contraddittoria di un regime che non può stare fermo: potrebbe anche collassare sotto il peso delle sue crisi. E allora non e impensabile che un successo dei colloqui a sei possa gestire la riunificazione delle due Coree, mediando tra le esigenze di tutte le parti: sebbene l'interesse di tutti sia quello di preservare lo status quo, il totale potrebbe essere differente dalla somma delle parti.
L'unico compromesso possibile potrebbe venire da un avvicinamento economico ed istituzionale del Nord alle condizioni del Sud tramite un lento processo di adattamento, ma oltre alla volontà politica reciproca ci sarebbe bisogno di un atteggiamento più conciliante anche da parte della comunità internazionale, USA su tutti, che invece preferisce tenere la Corea del Nord nel suo status di isolamento e sussistenza. Nuove speranze vengono dai recenti colloqui (maggio 2011) di Pechino tra Hu Jintao e il defunto Kim Jong Il: dal 2003, infatti, le sei potenze interessate (Seoul, Pyongyang, Pechino, Mosca, Tokyo e Washington) avevano aperto un tavolo per gestire collegialmente le tensioni e gli avvicinamenti tra le due Coree. Proprio la issue nucleare era stata uno dei principali motivi di fallimento dei colloqui, interrotti nel 2008, e che sembravano destinati a non riprendere. La recente riapertura, ottenuta ancora una volta mediante intermediazione cinese, risponde all'esigenza nordcoreana di uscire dal suo isolamento, ed è l'ennesima voce contraddittoria di un regime che non può stare fermo: potrebbe anche collassare sotto il peso delle sue crisi. E allora non e impensabile che un successo dei colloqui a sei possa gestire la riunificazione delle due Coree, mediando tra le esigenze di tutte le parti: sebbene l'interesse di tutti sia quello di preservare lo status quo, il totale potrebbe essere differente dalla somma delle parti.
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