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20/12/11

Dal 'Caro Leader' al 'Brillante Compagno'


L'opinione pubblica si aspetta stravolgimenti dalla morte di Kim Jong-Il, ma cambiamenti effettivi dello status quo appaiono improbabili



La morte del 'Caro Leader' ha suscitato negli analisti un più o meno condiviso auspicio libertario e democratico. Di Kim Jong-Un non si conosce bene neppure l'età, eppure gli opinionisti di mezzo mondo non fanno altro che ripetere, tra le altre cose, che è un fan dell'NBA, che ha studiato in Svizzera o che è confucianamente troppo giovane per assumere il comando, come se questo bastasse a far prevedere un indebolimento e quindi una svolta nel regime autoritario di Pyongyang. Appare necessario fare un leggero passo indietro. Delle condizioni del popolo nordcoreano si dice molto, il che equivale a non sapere nulla: internet oscurato, il culto dei due defunti Kim come divinità terrestri, l’incoscienza del mondo esterno né tanto meno di quanto accade a loro stessi.
 Lo scenario internazionale che crediamo di conoscere è, però, altrettanto poco trasparente: un rischio calcolato che ci appare al limite con una lucida follia, quando non con un dissennato suicidio globale. In tutto ciò c'è solo una parte di verità. Se da una parte agli USA interessa molto che all'altezza del 38° parallelo si tenga alta la tensione così da non dover smobilitare le sue truppe da un territorio cosi strategico come Seoul, dall'altra la Corea del Nord sente la propria indipendenza minacciata più dalla Cina che dagli stessi Stati Uniti, e per questo Pyongyang ha più volte manifestato la sua volontà di avvicinamento e di normalizzazione delle relazioni chiedendo colloqui bilaterali. Di fatto i nordcoreani sono spinti tra le braccia della Cina per disperazione, poiché messi all'angolo dalla quasi totalità della comunità internazionale che a questa si rivolge costantemente per fare da intermediaria con Pyongyang, mentre i cinesi sono evidentemente anche loro propensi a preservare uno status quo che non ne destabilizzi la supremazia nello scacchiere estremorientale.
 Una tensione, dunque, che piace: gli episodi di violenza tra le due Coree rispondevano ad una dinamica di politica interna. Si sapeva che Kim Jong Il non avrebbe vissuto a lungo, e l'ala militare del governo nordcoreano ne ha verosimilmente approfittato per non rischiare di veder cambiare le cose, considerato che (e in pochi lo ricordano) dalla morte di Kim Il Song nel 1994 erano stati fatti molti passi avanti e molte aperture da parte del 'Caro Leader' sia nei confronti del Sud che di tutta la comunità internazionale. Porte puntualmente chiuse in faccia, tanto per tenersi un comodo nemico-spauracchio pronto all'occorrenza (specie da parte degli USA).

 Kim Jong-Un ha incassato automaticamente la fedeltà del suo popolo, ma rappresenta certamente un'incognita: prima di lui suo padre, che veniva da una assai più lunga e dura formazione, seppe comprendere ed incanalare le volontà della gente, a partire dalla divinizzazione della figura del 'Grande Leader', Presidente Eterno. Il popolo può essere l'unica variabile impazzita di questa equazione: una stretta meno forte sul controllo dell'informazione potrebbe essere, per i vertici del regime, l'errore e dare il via a mobilitazioni nello stile della Primavera Araba. Ma il condizionale è d'obbligo: è impossibile misurare quanto possa sopportare l’indigenza un popolo così lontano dal nostro e non va dimenticato che nel Juche dei Kim si è trovata un'identità nazionale che la storia aveva sempre negato alla Corea. Senza, però, volersi addentrare in ipotetiche psicanalisi collettive, è assai improbabile che le gerarchie militari lascino al 'Brillante Compagno' (questo l'appellativo del prossimo leader nordcoreano) la possibilità di prendere decisioni tali da intaccarne il potere.
 L'unico compromesso possibile potrebbe venire da un avvicinamento economico ed istituzionale del Nord alle condizioni del Sud tramite un lento processo di adattamento, ma oltre alla volontà politica reciproca ci sarebbe bisogno di un atteggiamento più conciliante anche da parte della comunità internazionale, USA su tutti, che invece preferisce tenere la Corea del Nord nel suo status di isolamento e sussistenza. Nuove speranze vengono dai recenti colloqui (maggio 2011) di Pechino tra Hu Jintao e il defunto Kim Jong Il: dal 2003, infatti, le sei potenze interessate (Seoul, Pyongyang, Pechino, Mosca, Tokyo e Washington) avevano aperto un tavolo per gestire collegialmente le tensioni e gli avvicinamenti tra le due Coree. Proprio la issue nucleare era stata uno dei principali motivi di fallimento dei colloqui, interrotti nel 2008, e che sembravano destinati a non riprendere. La recente riapertura, ottenuta ancora una volta mediante intermediazione cinese, risponde all'esigenza nordcoreana di uscire dal suo isolamento, ed è l'ennesima voce contraddittoria di un regime che non può stare fermo: potrebbe anche collassare sotto il peso delle sue crisi. E allora non e impensabile che un successo dei colloqui a sei possa gestire la riunificazione delle due Coree, mediando tra le esigenze di tutte le parti: sebbene l'interesse di tutti sia quello di preservare lo status quo, il totale potrebbe essere differente dalla somma delle parti.

06/12/11

Lacrime Lacoste


 Il governo Monti ha presentato il conto. Un governo tecnico che fa quello che è stato chiamato a fare, dicono tutti: le misure impopolari necessarie che nessuno aveva il coraggio di intraprendere.
Falso.
Ora sono tutti lì ad indignarsi, chi da una parte e chi dall'altra, ma non sta accadendo nulla di inaspettato, nulla di imprevedibile. E neppure nulla di inevitabile. E soprattutto sta accadendo qualcosa di profondamente politico. Politicamente c'è stata l'ennesima resa della sinistra, sempre che ancora così si possa classificare il PD per metà ex-democristiano, per l'altra ex-diessino, a sua volta ex-migliorista. L'ex-sinistra, dunque, una volta tanto che poteva proporsi come alternativa, come novità, e col favore delle elezioni magari sfidare lo status quo, cavalcare i movimenti internazionali, ritrovare la sua anima e rilanciare l'economia, magari con un po' di vantaggio neo-keynesiano... si arrende. Non mi è dato sapere cosa passi per la mente dei leader di questa sinistra, né si capisce quale sia la loro inclinazione economica, ma sicuramente poco hanno degli animi battaglieri di quella classe che ne ha generato i principi, e probabilmente è scomparsa pure dal paese reale. Del resto non sono qui a richiamare la dittatura del proletariato né la collettivizzazione delle fabbriche, ma, magari, un po' di liberalizzazioni dove ci sono le lobby e qualche nazionalizzazione dove ci sono stati un po' troppe beneficenze statali, un po' di caro vecchio compromesso social-democratico fatto di spesa pubblica a sostegno della produttività. Misure che alla lunga avrebbero convinto pure i mercati, magari anche nell'immediato di un'elezione, se ben propagandati. Certo è che non si poteva sbagliare, e questi personaggi, invischiati come sono nelle loro beghe hanno pensato bene (riconosciamogli almeno l'onestà intellettuale) di non potercela fare.
Una sconfitta politica, dunque: o meglio, una resa incondizionata. Stiamo vivendo una crisi tremenda, ma endemica al nostro sistema economico. Il capitalismo è per sua natura portato a sviluppare crisi periodiche, specie nella sua degenerazione finanziaria: dagli anni Ottanta ad oggi la finanza emersa e sommersa dell'asse bancario Wall Street-Londra ha creato ad hoc bolle speculative che hanno sostenuto e danneggiato tutte le fasi della crescita economica sparsa per il mondo negli ultimi trent'anni. Allo scoppio di una bolla, si sopperiva con la nascita di un'altra, verso cui deviare le obbligazioni gonfiate: e via così. Le banche hanno attuato questa pratica sui mercati stranieri fino ad arrivare  in Europa e negli stessi USA capendo di poterlo fare senza soccombere, perché ormai detengono la valuta, detengono i nostri debiti, e "non possiamo" permetterci di lasciarle fallire. Hanno creato ricchezza virtuale, ma in quei numeri c'è il lavoro di tutti noi, e nessuno vuol perderlo. E allora comandano loro, e mettono Monti al governo per risolvere i problemi. E che cosa fa il buon impiegato della Goldman Sachs? "Stranamente" fa austerity. Facile e giustificabile, la crisi c'è, bisogna tagliare tagliare tagliare.
FALSO!
La politica è in tutto, e tutto è politica. Fare Austerity vuol dire perpetrare un pensiero economico vecchio di trent'anni, il pensiero delle politiche neoliberiste che hanno affossato il keynesismo che, pur con i suoi difetti, aveva risollevato l'europa post-bellica, creato produttività, diffuso ricchezza e welfare. Il sistema che ha garantito la formazione dei nostri padri, ha posto le basi del nostro stato sociale, ha permesso di raggiungere diritti ed equità. Non un sistema perfetto, ma un sistema che nei primi anni '80 è stato combattuto dall'1% più ricco della popolazione che non voleva condividere il suo benessere ed il suo potere. La manovra partorita dall'esecutivo di Monti ieri è il vessillo di questa politica economica, e non riesco a credere che il fior fiore della intellighenzia tricolore non potesse produrre di meglio.
Ancora una volta abbiamo ciò che ci meritiamo: i più ricchi gestiscono il mondo a loro piacimento perché hanno saputo addormentare per bene i deboli. Impegnarsi nei movimenti vuol dire essere dei comunisti, dei violenti, essere fuori dalla democrazia. Stare nella democrazia vuol dire, invece, scuotere la testa e votare sì. Io invece credo che, rimossa l'anomalia berlusconiana, bisogna riappropiarsi della politica e della democrazia. Non si può più essere bollati con etichette affrettate se si esprime un pensiero scendendo in piazza: un'idea è un'idea e come tale deve essere rispettata nella sua intonsa, perfetta, formidabile consistenza iperuranica. Alle istituzioni sta il compito di valutarne il peso, che deve essere proporzionale alle persone che scendono in piazza, e soprattutto sta il compito di rispettare quell'idea. Scontrandosi con la realtà l'idea farà il suo iter democratico, ma che lo faccia.
 Io, per esempio, piuttosto che bloccare gli assegni delle pensioni per due anni a gente che magari ha sulle spalle nipoti che non trovano lavoro, avrei tassato i prodotti finanziari agli speculatori che creano ricchezza virtuale. La mia è solo un'idea. Se nessuno la porta avanti non possiamo lamentarci di nulla. Non posso lamentarmi di nulla.

14/10/11

Gramsci for Vendetta

 Dal web ai manifesti per le strade, passando per sporadici passaggi televisivi. L'anticipo si è giocato in parecchie piazze la settimana scorsa, quando gli indignati italiani, armati di vernice, hanno protestato contro le banche, contro i simboli del ricatto che l'economia capitalista, nella sua evoluzione finanziaria, gioca nei confronti dei governi del mondo. I lanci di vernice contro la sede milanese di Moody's, una delle principali agenzie di rating che ha declassato l'Italia, è stato quanto mai simbolico e rappresentativo del momento che stiamo vivendo. Molti manifestanti erano giovani studenti, e alcune interviste dimostrano che non era molto chiaro agli stessi che cosa effettivamente fosse Moody's, che cosa significasse "agenzia di rating", ma ciò non rende la protesta meno efficace, meno credibile. E', anzi, la fotografia più veritiera del sistema in cui viviamo, un sistema economico che ha ceduto al mondo della finanza. Sono oramai tre decenni che viviamo in un sistema sganciato dalla realtà: gli anni '80 e '90 sono stati contrassegnati da tassi di crescita irreale, abbiamo goduto di una ricchezza inesistente, ci siamo abituati ad un tenore di vita globalmente insostenibile. Le case, le TV, i vestiti, le vacanze di quegli anni, è come se fossero state pagate coi soldi del monopoli. Il neoliberismo si è propagato sull'onda di bolle speculative progressive, la cui esplosione era coperta dalla speculazione su nuovi mercati, su nuove aree economiche. Quando le banche hanno capito che potevano evitare i danni di simili esplosioni anche quando avvenivano nel cuore dell'economia capitalista, cioè l'Europa e gli USA, sono iniziate le speculazioni sui mercati tecnologici e su quelli immobiliari. Ricchezza finta, virtuale, basata su strumenti finanziari che mettono alla prova le capacità matematiche dei migliori economisti: nulla di più lontano dal mondo reale. Perché uno studente, un uomo medio, dovrebbe capire cos'è un'agenzia di rating? Tanto per capirci, le agenzie di rating sono quelle che hanno dato valutazioni AAA alle obbligazioni prodotte dalle banche americane nel 2008, alla vigilia dell'esplosione della bolla dei famigerati Subprime. Erano d'accordo, davano valutazioni positive in cambio di commissioni. Ci hanno perso la faccia, ma non i soldi. Quelli li stiamo perdendo noi. Il mondo è nelle loro mani, è il loro giocattolo, e noi possiamo sbatterci quanto vogliamo, Berlusconi o non Berlusconi, ma i governi sono tutti sotto scacco da parte di queste istituzioni. E allora? E allora ci incazziamo. Agenzie di rating? Non capirò mai cos'è e come funziona e per chi lavora o con quale autorità, ma ho capito che per quanti sacrifici faccio per studiare, dare i miei esami, lavorare nel tempo libero per comprare i libri, pagare la retta, pagare l'affitto, pagare le bollette, e magari, ogni tanto, vivere i miei vent'anni, sarà sempre nelle loro mani il mio futuro. Se tutto passa per i soldi che ho in tasca, continuerò ad essere ricattato da loro. Non sarò mai più libero, e questo mi indigna.
Poi vedo che a questo ricatto si aggiunge l'incompetenza. Apro il mio browser, accendo la mia TV, sfoglio il giornale, e vedo che chi può decidere, quelli a cui abbiamo delegato il compito di passare le loro giornate ad amministrare le nostre vite, non fanno che prenderci in giro. Rendono ancora più difficili i miei sacrifici per studiare e pagarmi la retta e l'affitto, rendono ancora più difficile che io trovi una motivazione per fare questi sacrifici, visto che non c'è futuro per me, che vorrei realizzarmi guadagnandomi da vivere applicando le conoscenze che ho sviluppato seguendo le mie inclinazioni. Sciocco che sono. Una ragazza con un bel fisico che si presta a destra e a manca per arrivare a fare la soubrette in un programma di dubbia comicità, arriva facilmente ad amministrare una regione. Io che impiego il minimo del tempo per laurearmi col massimo dei voti devo spendere tempo e denaro per fare gratis il mestiere che più mi piace, che mi fa sentire realizzato.
Le nostre strade sono tappezzate di volti fumettistici di Guy Fawkes, simbolo mutuato da un film a sua volta mutuato da una graphic novel. Avrei preferito che il simbolo fosse, che ne so, Gramsci, che per primo ha denunciato il fordismo, aveva intuito tutto in anticipo. Il 15 ottobre scende in piazza il popolo, per una lista innumerevole di motivi tale che è sufficiente elencare poche parole chiave: scuola, casta, riforme, servizi, tasse, ricerca, sviluppo. Non importa qual è il simbolo. Non importa più. La gente è incazzata. Anche gli italiani. Finalmente.

29/09/11

Gli amici vicino, i nemici ancora più vicino...


 Chi ha detto che questo governo non ci rappresenta? A dare un'occhiata alla solidità della maggioranza, c'è da scommettere che non resisterebbe facilmente ad uno “stress test”, al pari della nostra economia. Peccato che le opposizioni, bontà loro, non siano in grado di produrne. Ma andiamo con ordine.
Il 24 settembre, mentre era a Washington con i suoi pari del G20, Giulio Tremonti replica alle accuse dei berluscones portata dai soliti giornali liberi (nei nomi, almeno) senza smentite, che ne invocavano la testa per la sua assenza in aula in occasione del voto su Milanese. Evidentemente, in un momento e su temi in cui l'alleanza tra Pdl e Lega appare tutt'altro che “sempreverde”, è apparso conveniente sobillare le attenzioni dei liberi lettori di giornali contro il ministero con gli occhi più addosso di tutti, in una fase di manovre impopolari. Del resto il miglior presidente della storia d'Italia col Ragionier Giulio ha sempre coltivato un rapporto di catulliana memoria, ma stavolta è stato il Ministro a recitare la parte della sfuggente Lesbia e provocare il cavaliere dichiarando: "Io sono qui a lavorare per l'interesse del Paese e Silvio che fa? Mi vuole sfiduciare? Se ne ha la forza mi cacci, provino a farlo, se ne sono capaci". E dopo lo sfogo torna a tessere rapporti con i colleghi internazionali e le istituzioni dell'FMI. Da parte sua sa bene che la leadership di Berlusconi non è più solida come un tempo, e di certo il Quirinale disapproverebbe un cambio della guardia a rallentare le operazioni di un Ministero quanto mai strategico.
Nei giorni seguenti, tra le sordide notizie di meretrici, faccendieri e picciotti, nella salubre aria di quel bel posto che è Montecitorio la tensione al vertice si è attenuata. Il 27 settembre, uscendo da un lungo vertice di maggioranza di due ore a palazzo Grazioli, le dichiarazioni ufficiali recitano un secco “Il lavoro è stato molto positivo”. Tanto basta per considerare l'ascia di guerra deposta e lasciare al premier l'incombenza di trattare con la Lega sulle pensioni. Nemmeno un attimo di pace, povero Silvio, e del resto di una pura tregua si tratta, contingentata all'urgenza di stilare il decreto sviluppo: il parto è stato annunciato entro due settimane.
Oggi, 29 settembre, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, ha ribadito che in un unico Consiglio dei Ministri il 13 o il 14 ottobre (premesso che ci si occuperà prima della assai più urgente questione delle intercettazioni) sarà varato il decreto sviluppo e si sceglierà il successore di Mario Draghi alla guida di Bankitalia. “Abbiamo formato una commissione partito-gruppo per presentare a Berlusconi, Letta e Tremonti le nostre proposte”, ha detto Lupi, quasi a voler trasmettere una rinnovata solidità dell'intellighenzia pidiellina.
Ma oggi è stato anche il day-after del voto di fiducia al Ministro dell'Agricoltura Romano, e se in aula la Lega si è dimostrata solidale con gli alleati e sulle poltrone, la base trema. Sì, perché tra le sue mille contraddizioni ideologiche, gli elettori del carroccio sono pur sempre quegli omoni veraci, duri e puri che sputano sul tricolore di Roma Ladrona. A farsi portavoce del dissenso con una lettera al Corriere della Sera, il sindaco di Macherio, Giancarlo Porta. E lo fa senza peli sulla lingua. “Ho anch’io i miei sospetti sui mille interessi della Lega – scrive – ma ormai la tenaglia probabilmente ricattatrice del premier ci sta portando alla deriva, sia come Italia che come Lega”. Dopo il caso di Milanese ripetutosi con lo stesso copione per Romano, il timore è che si vanifichino tutti gli sforzi per associare l'azione di un ministro come Maroni alla performanza dell'azione antimafia, e la sensazione è che risultati come quello delle amministrative di Milano non possano registrarsi come dissociati da questi giudizi. C'è da giurarci: se non vuol veder sfumare i clamorosi progressi percentuali del suo partito, Bossi o chiunque altro abbia un minimo di senno (?) ai vertici, non potranno ignorare questi malumori a lungo e alla prossima chiamata della base dovranno staccare la spina al Berlusconi IV.
Davvero una brutta gatta da pelare per l'Highlander di Arcore. Come biasimarlo se alla sera, stressato com'è, cerca conforto in qualche massaggino? Per fortuna Bersani & Co., almeno loro, non gli danno pensieri...

20/09/11

Tremonti e il libretto rosso (degli assegni)


Nel giorno in cui Standard&Poor’s declassa il rating dell’Italia (da A+ ad A), l’entità dello spread dei titoli di stato tricolore con i Bund tedeschi sale a circa 390 punti. Una forbice che ha toccato anche picchi peggiori in questo finale di estate quanto mai torrido per la nostra economia. La scarsa fiducia dei mercati aveva reso i nostri Btp e Cct perfino meno appetibili di quelli spagnoli: evidentemente le nostre prospettive di crescita ed il nostro governo appaiono anche meno affidabili di quelle della Spagna di Zapatero in balìa degli indignados.
Dopo aver incassato l’approvazione dell’Europa sulla super-manovra di emergenza approvata dal Parlamento, la Bce ha acquistato un quantitativo di titoli di stato sufficiente a darci una boccata di ossigeno. Ma non basta. Lo stesso Mario Draghi, designato a presiedere l’istituto bancario centrale dell’Unione a partire da novembre, non ha preannunciato favoritismi per il nostro Paese, sottolineando, anzi, il carattere di emergenza, e quindi temporaneo, delle misure concesse al nostro Tesoro.
In tempi di crisi globale il mercato, le cui fluttuazioni molto devono al fattore psicologico, ha un vitale bisogno di segnali di fiducia. L’Italia le ritrova inaspettatamente in Cina. La missione italiana è iniziata ad agosto, quando il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, viaggiò in Oriente per proporre ai fondi sovrani cinesi e ad investitori di Hong Kong e Singapore di investire nei nostri titoli di Stato. L’interesse si accese, ma, di fronte alla situazione economica europea in generale ed italiana in particolare, i cinesi chiedevano garanzie. Il 6 Settembre si è mosso il ministro Tremonti in persona, incontrando a Roma una delegazione della China Investment Corporation (Cic), uno dei maggiori fondi sovrani d’investimento mondiali, guidata dal loro presidente Lou Jiwei.
Proprio oggi AGICHINA 24 riporta una dichiarazione del portavoce del ministro degli Esteri cinese Hong Lei: “Riteniamo che l'Europa abbia la capacità e l'intenzione di superare le attuali difficoltà e di lasciarsi alle spalle la crisi e ci auguriamo che sappia difendere gli investimenti cinesi”. Un’iniezione di fiducia per le trattative avviate dal nostro ministro perché Pechino non regredisca dall’acquisire una quota significativa di buoni del tesoro italiani.
Non c’è assolutamente nulla di male in tutto questo, anche perché i cinesi detengono già titoli italiani per 90 miliardi e, più in generale, un quarto del debito estero detenuto da Pechino è in euro: nulla di strano che i cinesi, che dalla crisi del 2008 sono tra i pochi a potersi permettere investimenti importanti, cerchino di evitare che l’euro collassi.
Più grave, forse, che il regime psicologico protezionista e da caccia alle streghe abbia spinto i vertici della nostra economia verso Levante solo in un contesto di crisi così acuta. Non a caso, quando si è diffusa la notizia sulle mosse di Tremonti, l’ex-Premier Romano Prodi, che si trovava proprio in Cina per tenere una serie di conferenze presso l’Università di Pechino in qualità di esperto di economia, ha commentato con un laconico “meglio tardi che mai”. "Non ci voleva un genio per capire cosa era la Cina - continua Prodi a Radio 24 - Se non si è in Cina è come non avere i piedi nel mondo". Un ritardo, quello italiano, che era stato precedentemente rimarcato pure da Luca di Montezemolo, che nell’occasione accusava Silvio Berlusconi di non essere mai andato né in Cina né in India.
Del resto in Italia siamo in un regime di “emergenza costante”, sempre lungi dalle soluzioni programmatiche. Ma questa volta potremmo pagarla cara. Sì, perché una mossa tanto fuori tempo (non avendo margine di trattativa) ci ha costretti ad aprire senza fare troppe storie agli investimenti cinesi non solo i nostri titoli, ma anche l’economia reale. Il mercato cinese non sarà più per molto tempo il mercato delle brutte copie: il costante arricchimento sta creando una superclass dal palato fino. E il made in Italy potrebbe diventare un boccone prelibato a buon mercato.

Evasori d'Italia. Chi ci spinge in fondo all'UE ?


 Le camere hanno varato la scorsa settimana una manovra finanziaria di emergenza che segue un massiccio provvedimento già deliberato prima dell’estate e a cui faranno seguito a breve altre manovre di entità altrettanto notevole. Entro il 2013 tali manovre dovrebbero arrivare a rimpinguare le casse dello Stato per una somma che si aggira attorno ai 400 miliardi di euro. Una colossale serie di riforme per salvarci dal fallimento e risalire la china in Europa, per riavvicinarci un po’ alla Germania e cercando di tenere lontano lo spettro della Grecia.
Tralasciando il dibattito etico-politico che tanta polvere ha alzato tra le fila dell’opinione pubblica, in particolare in riferimento ai privilegi della casta di Montecitorio come a quelli di cui beneficia il Vaticano, il dato che più di tutti sottolinea il nostro ritardo rispetto all’élite dell’UE è quello della lotta all’evasione.
Lo scorso 24 agosto Dario Pagnoni ha elaborato un’eloquente grafica su “Il Sole 24Ore”, mostrando il tasso percentuale di evasione fiscale sul gettito teorico di tutta l’Europa a 27. L’Italia occupa il 4° posto con un’evasione al 22%, dietro Ungheria (23%) e Slovacchia (28%), con il primo posto “saldamente” in mano alla Grecia (30%).
 I paesi chiave dell’Unione, Germania e Francia, hanno tassi notevolmente più bassi (rispettivamente 10% e 7%). E se è vero com’è vero (e come anche il nostro Ministero del Tesoro non manca di ricordarci in un suo recente spot contro l’evasione) che le nostre tasse ci vengono restituite in beni e servizi, chiunque sia stato nella metropolitana di Berlino o Parigi avrà ben chiaro come questi numeri si traducano in fatti constatando la differenza (e i trasporti pubblici sono solo uno dei possibili esempi) con i servizi di Roma, Milano o Napoli.

Come si distribuisce nel Paese questo dato? La risposta a questo quesito non è esente da valutazioni politiche, considerato che il governo in carica si è sistematicamente dilettato in condoni di vario tipo, a partire dai grossi conti all’estero fatti rientrare con lo “Scudo Fiscale” al 5%, senza dimenticare i meno recenti condoni sull’abuso edilizio e la depenalizzazione del falso in bilancio. La sistematicità di questo genere di misure non ha evidentemente incoraggiato queste classi di contribuenti a regolarizzarsi, specie stando alla fotografia del Paese che l’IRPEF ha fatto a inizio giugno. I dati parziali, riferiti al 2010, mostrano che l’evasione (dato medio: 13,5%), contrariamente alla propaganda di certe fazioni politiche, al Sud (7,9%) è sensibilmente inferiore al Centro (17,4%) e al Nord (14,5%). Non a caso dal lavoro autonomo (libera impresa) si registra un -56,3% di gettito, e dai proprietari immobiliari un -83,7%. Unico dato positivo il +7,7% versato dai pensionati.
 Questi dati in buona parte sono inficiati dalle stime sull’economia sommersa: un buco stimato tra i 255 ed i 275 miliardi. I dati IRPEF, stavolta riferiti al 2008, tuttavia corrispondono per il 55% alle “correzioni del fatturato”, e per il 37% al lavoro “nero”. Quest’ultimo dato si è ridotto del 2,3% rispetto all’anno precedente, ma non c’è molto da esultare, poiché c’è stata una corrispondenza immediata nei dati sul lavoro precario.

 L’Italia, dunque, è senz’altro un Paese Europeo con un tasso di evasione troppo alto perché l’unica misura presa sia uno spot televisivo in un momento di instabilità che mette a rischio la coesione dell’intera eurozona. Ed è senza dubbio impossibile “bacchettare” gli italiani, che non sono antropologicamente più inclini all’evasione dei vicini francesi, tedeschi o spagnoli, ma la cui condotta, se mai, rispecchia le scelte quantomeno discutibili della sua classe dirigente.

16/09/11

Sessantatré anni di un regime “familiare” alle prese con il prossimo passaggio alla sua terza generazione


 Venerdì scorso, 9 Settembre 2011, a Pyongyang si è celebrato il 63° anniversario della Repubblica Popolare Democratica di Corea (DPRK). Nell'ultima settimana lo spartano sito che fornisce le agenzie ufficiali del governo nordcoreano, il Korean Central News Agency (KCNA), si è arricchito ogni giorno di annunci di auguri e di regali di questo o quel governo o ambasciata a celebrare la ricorrenza, e ad una settimana di distanza ha potuto ben selezionare i rapporti commemorativi più convenienti diffusi dai media stranieri. Tra tra un augurio e l'altro anche la notizia di un liceo cubano intitolato allo storico leader Kim Il Sung, con l'intervallo di alcune notizie di cronaca estera, come la visita del Presidente cinese Hu Jintao agli insegnanti delle scuole medie di Pechino e lo spropositato investimento del governo della Repubblica di Corea (ROK) di Seoul per l'acquisto di vari tipi di armi dagli Stati Uniti.
Anche tra le laconiche agenzie della KCNA possiamo tuttavia trovare uno spiraglio che faccia luce aiutandoci a comprendere uno degli scenari più complessi dello scacchiere globale, specie al termine di un anno tanto complesso. Si, perché questo sessantatreesimo anno è stato probabilmente uno dei più aspri per i rapporti ufficiali intercoreani dalla caduta del blocco sovietico, se non addirittura dall'armistizio del '53 che pose fine alla Guerra di Corea, e vale la pena ricordare che nessun trattato di pace ha mai seguito quell'armistizio.
Questi gli avvenimenti. Il 26 marzo 2010 la corvetta sudcoreana Cheonan che transitava nel Mar Giallo colava a picco dopo un esplosione a poppa portando con sé 46 marinai. L'affondamento veniva attribuito all'attacco di un'unita sottomarina di Pyongyang. Il 23 novembre seguente le batterie costiere nordcoreane aprivano il fuoco contro Yeonpyeong, un'isola a 13 Km dalle coste del Nord la cui attribuzione alla Corea del Sud e sempre stata contestata, e i sudcoreani risposero prontamente al fuoco, con un bilancio finale di 4 sudcoreani morti (tra cui 2 civili) e 15 feriti. Il 17 giugno scorso, infine, l'attenzione e la tensione internazionale sulla penisola estremorientale sono state tenute alte dalla notizia di un fuoco aperto per errore dall'artiglieria sudcoreana contro un aereo commerciale dell'Asiana, importante compagnia battente bandiera ROK, scambiato per un velivolo nordcoreano. Altri scambi di colpi di artiglieria, seppur trascurabili dal punto di vista militare e pressoché inscrivibili nella prassi dei rapporti di frontiera tra Nord e Sud, si sono avuti agli inizi di Agosto impedendo l'instaurarsi di un regime di calma, seppur apparente.
La svolta dei primi anni '90, con la caduta del blocco socialista da una parte e la fine delle dittature militari dall'altra, si era tradotta in una reciproca apertura al dialogo delle due parti. Nel 1991 le due Coree furono congiuntamente ammesse alle Nazioni Unite e nel Giugno 1994, con la mediazione americana, venne deciso un incontro ai massimi livelli tra Kim Il-sung e Kim Young Sam, programmato per il successivo 25 Luglio; purtroppo la morte del Grande Leader impedì che lo storico incontro potesse aver luogo. Tuttavia la disponibilità al dialogo dei Presidenti sudcoreani Kim Dae-Jung e Roh Moo Hyun fece ugualmente segnare una serie di piccoli passi avanti nel delicato processo di riappacificazione. Nel Giugno 2000 si è tenuto lo storico incontro con il viaggio di Kim Dae-Jung a Pyongyang, improntato su una politica di trasparenza tra le due parti. Risultati concreti se ne sono avuti: il più simbolico e significativo è stato, probabilmente, la decisione di riaprire la linea ferroviaria Pyongyang-Seoul interrotta nel '45 dalla linea di demarcazione. Più concretamente va registrato che ad alcune imprese sudcoreane venne concesso di approdare al Nord, al quale fu concesso di importare tecnologia informatica. La città di Kaesong, antico snodo commerciale in territorio settentrionale, venne demilitarizzata e al suo interno si stabilirono 250 società sudcoreane che, al 2007, contavano circa 100.000 operai nordcoreani. Nel Gennaio 2001 Kim Jong-Il cercò di rilanciare l'apertura al mondo occidentale dichiarando di voler assumere una “nuova mentalità” rispetto alle sfide dell'economia. Ma solo un anno dopo, il 30 Gennaio 2002, l'ottusa amministrazione Bush Jr. inscriveva ufficialmente la Corea del Nord tra gli “Stati Canaglia” e componente autorevolissima del cosiddetto “Asse del Male”. Il 2 Ottobre 2007 il Presidente Roh Moo-Hyun comunque incontrò Kim Jong-Il per riaffermare lo spirito dell'incontro ai vertici del 2000. Il 4 Ottobre 2007 i due leader hanno firmato una dichiarazione di pace, un documento che invoca un consiglio internazionale per sostituire, a distanza di oltre mezzo secolo, l'armistizio del '53 con un trattato di pace permanente.
Le provocazioni della Corea del Nord si inscrivono nel paradigma della minaccia: il Nord è un Paese che si sente sotto assedio e che deve continuare a tenere alto il suo livello di militarizzazione per sentirsi al sicuro (specie in virtù della continua presenza e delle sessioni di esercitazione delle truppe statunitensi con quelle sudcoreane), ma non è autosufficiente (specie quanto a generi alimentari) e alzare periodicamente la tensione fa parte della sua strategia di brinkmanship per tenere alti i suoi margini di negoziazione. Poi ci sono Washington e Pechino. Se da una parte agli USA interessa molto che all'altezza del 38° parallelo si tenga alta la tensione cosi da non dover smobilitare le sue truppe da un territorio cosi strategico, dall'altra la Corea del Nord sente la propria indipendenza minacciata più dalla Cina che dagli stessi Stati Uniti, e per questo Pyongyang ha più volte manifestato la sua volontà di avvicinamento e di normalizzazione delle relazioni chiedendo colloqui bilaterali. Colloqui peraltro mai concessi dagli USA proprio per non compromettere i rapporti con Pechino. E tutto questo la dice lunga, a sua volta, sui rapporti tra Corea del Nord e Cina. Nonostante l'atteggiamento di facciata che traspare dalle agenzie (anche di dubbio interesse) della KCNA sul vicino cinese, di fatto i nordcoreani sono spinti tra le braccia della Repubblica Popolare per disperazione, poiché messi all'angolo dalla quasi totalità della comunità internazionale che ad essa si rivolge costantemente per fare da intermediario con Pyongyang. I coreani non sono affatto contenti di questa forma di provincializzazione, mentre i cinesi sono evidentemente anche loro propensi a preservare uno status quo che non ne destabilizzi la supremazia sullo scacchiere estremorientale.
Cosa è cambiato rispetto alla lenta distensione dei quasi vent'anni precedenti? A questa domanda può probabilmente rispondere soltanto uno sguardo interno al regime. Kim Jong-Il ha indicato nel suo terzogenito Kim Jong-Un la prossima guida del Paese, ma è possibile che il giovane erede designato sia già virtualmente in carica, date le condizioni di salute del Caro Leader, e che in un regime militare come la DPRK la linea dura, dopo un lungo periodo di distensione e storici incontri al vertice, sia stata una prova di forza e legittimazione della sua investitura.
Le ultime uscite pubbliche sembrano avvalorare la tesi che riconduce al “fattore successione”. Fino ad un anno fa le apparizioni di Kim Jong-Un erano sempre state alquanto defilate, tanto che, di fatto, poco si sa di questo ragazzo, a partire dalla sua età: compresa tra i 28 e i 30 anni. All'improvviso, poi, il suo cursus honorum militare è stato accelerato, con la promozione ad uno dei più alti ranghi militari dell'esercito norcoreano e con la moltiplicazione delle sue apparizioni ufficiali accanto al Caro Leader suo padre.
Le celebrazioni del sessantatreesimo anniversario hanno confermato questa tendenza. Nelle sue agenzie la KCNA ha citato il giovane nelle primissime posizioni dei dirigenti che hanno partecipato agli eventi di celebrazione. Unitamente al recente, inedito attivismo diplomatico di Kim Jong-Il con Pechino e Mosca, sembra di poter leggere l'azione di governo in chiave di consolidamento della storica immagine di solidità tanto in patria quanto all'estero. La guida del Caro Leader non deve apparire in discussione neppure di fronte ai dubbi sul suo stato di salute, mentre la successione di Kim Jong-Un non può non passare tramite una legittimazione all'interno delle gerarchie militari.

Disgregazione e aggregazione.

Salve a tutti,
 a tutti gli amici, i parenti, gli utenti, i lettori, i critici, gli studenti, ma soprattutto ai curiosi che capitano o capiteranno su questa pagina. A questa pagina affido tutto me stesso. Quando all'inizio degli anni 2000 l'ADSL si è diffuso in Italia e tutti hanno iniziato ad aprirsi un blog, anche io caddi nel terribile vortice adolescenziale che induceva a scrivere un diario personale che la globalità della rete potesse aprire agli sconosciuti di tutto il mondo: quello che si potrebbe ribattezzare come un "grido di attenzione 2.0".
 Poi è venuta l'epoca dei social network, e le cose sono peggiorate. Se prima ci si doveva quantomeno impegnare a produrre dei contenuti, Facebook&Co hanno aggiornato il concetto di Profilo personale. Una foto, i propri dati e un riciclo continuo di link, immagini e pensieri altrui da diffondere e commentare come in un enorme giardinetto per la ricreazione da scuola elementare, ma in stile virtuale e per l'uso e il consumo (almeno all'inizio) di utenti maggiorenni. Come per tutte le cose, si possono trovare aspetti positivi e negativi, e non sto qui a sindacare su un giudizio universale ai danni della "Effe Blu", ma è appunto questo concetto di "profilo" che mi ha ispirato.
 A mio avviso la rivoluzione delle interazioni prodotta dai network sociali ci ha portati tutti al livello di quei bambini della ricreazione, ma nel modo peggiore. Cerchiamo tutti patologicamente attenzione, con la foto migliore, il link più divertente, la frase più accattivante, misurando con il numero di "Mi piace" quella che è la nostra popolarità. Una foto, un nome, e poi tutti contro tutti, a colpi di notifiche, cercando approvazione, sperando di piacere più degli altri, nutrendoci degli altri per essere i primi. Una atomizzazione che ci collega con tutti, ma ci rende sempre più soli. Reti di familiari e amici rispetto ai quali ci poniamo al centro. Ogni profilo è al CENTRO della sua rete, e lì è solo. Milioni e milioni di utenti collegati e soli.
 In un epoca in cui le cose passano rapidamente di moda, lancio questo mio blog mentre è "fuori moda" farlo, e con una idea e un principio opposti a questa atomizzazione. Questo sarà un luogo virtuale dove intendo dare spazio alle mie idee, ma soprattutto a stimolare la ricerca, l'informazione. Qualsiasi notizia stimolerà il mio interesse, io mi dedicherò ad approfondirla secondo le mie idee, ma non sarà per affermare la mia bravura. Sarò contentissimo quando verrò contraddetto perché avrò smosso un intelletto, avrò aperto un confronto. L'informazione e il risveglio delle coscienze sono il mio obiettivo. Dobbiamo smetterla di guardare solo a noi stessi, bensì riaprire gli occhi sul mondo, specialmente sulle realtà più lontane dagli altari dei mass media. Solo informandoci e pensando con la nostra testa siamo veramente liberi. Solo essendo consapevoli possiamo smettere di crederci al centro del mondo. Attiviamo le nostre reti, non puntiamo ad alzare il numero dei nostri "amici", alziamo la qualità delle nostre connessioni. Smettiamola di essere soli contro tutti. Smettiamola di sgretolarci, torniamo uniti, facciamo il percorso inverso. Uncrumble.