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27/03/13

Non fumo più.



In origine era un vezzo, un segreto vanto, un’evasione. Poi un’abitudine, un vizio, questa era stata l’evoluzione, malevola. Cultura, film, immaginario musicale. Caducità ricercata, ammirata, da sperimentare. Com’è nata? La prima volta, ricordo, fu per amore. Nascosto, taciuto, adolescenziale. Tremendamente simile ad un film di bassa lega, com’era la vita che vivevo all’epoca, del resto. Alto tasso di serenità e fortuna da vendere, col senno di poi. Un piagnucoloso mal di vivere perenne, in itere. Del resto la scarsa capacità di socializzare ti porta a sublimare, raccogliere maree di pensieri prima sui foglietti e poi (triste evoluzione) magari anche sulla tastiera di un pc. In entrambi i casi fai di tutto per nasconderli mentre in fondo al cuore vorresti dannatamente che qualcuno li trovasse per dirti “bravo”. Come quella marea di personaggi dei fumetti, dei libri, dei film e dei telefilm americani. Come Dumbo. Tutti lo prendevano in giro per le sue grandi orecchie, ma saranno proprio quelle a farlo volare, a renderlo speciale, a dimostrare che per essere migliori bisogna essere diversi. E questa piccola speranza albergava anche in me, che in fondo speravo che quelle righe finisse per leggerle quel destinatario a cui non vennero mai spedite, che le trovasse sublimi, impareggiabili, trasformandomi da goffo elefante sgraziato a stupefacente meraviglia della natura. Ma si impara, ahimé, troppo presto – o forse troppo tardi – che il mondo pullula di gente mediocre, normale, consueta, e che tu sei, con ogni probabilità, una di quelle. Inutile che ti crogioli nelle pacche confortanti dei più stretti. Loro, probabilmente, sono solo peggio di te. Troppo facile essere meglio di loro, sentirsi “bravo” in mezzo ai mediocri. Ma si parlava di amore e fumo. Quando, insomma, cerchi di misurarti con un po’ del mondo reale che per troppo tempo ti è mancato e di fronte al quale ti senti terribilmente impreparato, vuoi fare tutto in fretta, e l’ondata ti travolge con un’alternanza di inettitudine e godimento. Dove eri stato fino a quel momento? Cosa avevi vissuto prima di allora? No, no. Non sto parlando di nessuna esperienza psichedelica. Una semplice chiacchiera davanti ad una birra, per me, era questo. Trascorrere il tempo con persone che, più o meno, avevano voglia di passarlo con me, era per me la novità. Anche il solo non essere rifiutato da un gruppo di persone, per me, era qualcosa. Anche se stavo in disparte ad ascoltare, anche senza condividere ero coinvolto. E di tanto in tanto potevo dire pure io la mia. Magico. E poi stando in mezzo agli altri ti ritrovi a trascorrere una mattinata di quelle in cui c’era stata un’assemblea, o una manifestazione o uno sciopero. Forse è primavera, forse è autunno: l’importante è che non piova. Se piove ci infiliamo giù in saletta, ma lì ci vedono in tanti, la gente passa. Il paese è piccolo. Il problema in realtà è solo mio. Per lo più nella mia testa. Meglio, molto meglio i giardinetti scoscesi dietro la scuola. Qualche gradino e sei lì, dove nessuno può vederti. Lì tante ore passavano tra bottiglie di birra scadente, ma economica e col tappo a vite, tracannate di soppiatto mentre pendevo dalle labbra di ragazzi che mi sembravano venire da un altro pianeta, e invece ero io l’alieno buffo e me ne rendevo sempre più conto. E parlavano di musica e di personaggi che nella migliore delle ipotesi a malapena avevo sentito nominare, passandomi di tanto in tanto una cuffietta del loro lettore cd portatile. Un must have superambìto che in meno di dieci anni è diventato poco più di un cimelio. E insomma lì di sigarette ne erano girate a iosa. Spesso si vedeva anche qualche spinello: la temutissima droga che non avrei mai pensato di poter vedere era maneggiata con dimestichezza da gente a cui davo del tu. Ma io non avevo mai ceduto agli inviti. Sempre perfettino, sempre bravo ragazzo, sempre impeccabile. Solo alle birre avevo ceduto in qualche occasione, sempre più spesso, come se fossero più facili da nascondere. Eppure la sigaretta ti dava quella maggiore sensazione di “errore”. Forse perché sin dall’infanzia cercano di spiegarti che fa male, che fa male a chi ti sta intorno, che devi convincere la gente a smettere, che se ti vedo con una sigaretta in mano ti taglio le mani. E invece il nonno un mezzo bicchiere di vino allungato con tre quarti di acqua te lo faceva bere anche a sei-sette anni. Iniziai a bere ascoltando musica, per guardarmi dall’esterno, per sperimentare i miei istinti perennemente domati e perché in quelle nuove parole e suoni, per lo più vecchi di trent’anni e passa, trovavo sfogo e propagazione del mio animo. Ma la sigaretta è tutto un fatto di stile. Logicamente, razionalmente inutile e dannoso. Non volevo autodistruggermi, non ancora. Però ogni tanto si inserisce quella variabile che non ti aspetti. Maledette donne. Ai miei compagni avrei potuto continuare a dire no senza problemi. Poi arriva quella ragazza, quella a cui tu non fai che pensare mentre ascolti la tua nuova musica. Che ci fa lì? Non è che stia con voi così spesso fuori dalle mura del liceo. E a te fa piacere, ti sembra che il fatto che stiate condividendo pezzetti di vita vi darà delle memorie in comune. Un qualcosa che vi legherà inevitabilmente, tanto più se di contorno ci saranno un po’ di risate. Perfino lei fuma, chi l’avrebbe detto solo pochi mesi fa. È più simile di me al mio gruppo, alla mia compagnia. Sono proprio un alieno. Siete amici, studiate insieme. E poi che fa? Lei ti spinge a fare un tiro, uno solo. “Prova”. E lo fai, impugni con le due dita la tossica bacchetta, già fumante, e posi le labbra dove poco prima erano state le sue. Ma non pensi a questo, non pensi a niente. Sarebbe poetico, certo, mitizzare su questo platonico bacio tossico. Tuttavia l’unica cosa che ti preme è non fare figure di merda, non lì davanti a quella manciata di coetanei che per te rappresentano l’ossigeno, la sopravvivenza. Senza saresti il nulla, e ritorneresti a quella tua vita senza vita di non tanti mesi prima. Non pensi che lei ti amerà, non pensi che loro ti vorranno più bene di quel poco che ti cagano adesso. Vuoi semplicemente che le cose durino come sono. Dai un tiro, inspiri. Da un’estremità il tabacco e la carta in cui è arrotolata si colorano come un tizzone, bruciando e mutandosi in cenere. Dall’altra l’aria grigiastra e pregna di nicotina riempie le mie fauci vergini, bruciando la lingua e irritando le pareti della gola. A malapena mando giù, ma riesco a non tossire fragorosamente. Meglio di quanto pensassi. Già immaginavo scene tragicomiche da telefilm. “Non hai aspirato”. Dicono tutti. “Ma che ci trovate?” rintuzza un amico, deciso non fumatore con molta più spina dorsale di me, all’epoca.
Non ho certo cominciato a fumare per colpa di questa ragazza, comunque. Ma il primo tiro fu con lei. Poi, insomma, uno cerca di darsi un tono. Fatto una volta lo provi un’altra. Il senso di evasione ti piace, soprattutto la disobbedienza. Soprattutto se da te non se l’aspettano, insieme ai genitori, più o meno tutti gli educatori avuti nel corso della tua formazione scolastica. Mi piaceva rompere i loro schemi, con un semplice gesto, sia pure di nascosto. Ora nessuna logica potrebbe sostenerlo, ma al tempo per me era così. Ed era importante. È sempre una questione di punti di vista. Sempre.
Si comincia con un tiro ogni tanto, magari l’ultimo prima che l’amico la butti. Poi una sera alla terza birra inizi a scroccarla. Fumare dopo qualche birra è davvero bello, è come se il tabacco fosse nato per questo, per sfondarti i polmoni passando dalla trachea mentre a pochi millimetri dall’esofago arrivi a sfondarti il fegato. Non hai nemmeno 18 anni, sei immortale, e d’altra parte nella storia c’è chi è diventato una rockstar senza nemmeno saper suonare. Che si fotta la salute, la vita non ha senso. Magari scriverò un libro.
Invece, più di un anno dopo, le sigarette le compro solo una volta tanto. Per lo più le scrocco. Io non finirò nel giro, sembro dire, io faccio come mi pare. E alla fine ho avuto ragione. Sarà stato il troppo alcool o la troppa cattiva, meravigliosa compagnia. Ci sono voluti due anni per farmi diventare un fumatore regolare. Che roba, a 20 anni, mentre vedevo gente che addirittura si sforzava di smettere dopo una carriera da liceale turco, io cominciavo. Raziocinio diceva che ero uno stronzo. Ma una serie di circostanze miste alla precedente, ormai acquisita, abitudine, trasformarono lo sfizio in esigenza iterata. Quindi in vizio.
Colpo di grazia fu il mio primo viaggio in Cina. La prima vacanza dopo anni, una compagnia fantastica e un’esigenza senza precedenti di avere la consapevolezza di stare per un mese ad un emisfero di distanza da ogni problema o presunto tale. Questo il quadro. Poi inseriscici che un pacchetto da 20 costava 50cent. Davvero troppo facile prendere a fumare con assiduità dannosa.
Le cose poi sono proseguite pacificamente, destreggiandomi tra la progressiva consapevolezza di mia madre, che mai ha potuto sopportare questa mia dipendenza e infatti mai mi ha visto fumare, e mio padre, che fino a pochi mesi fa ancora fumava “di nascosto” (e forse lo continua a fare). Da chiunque in famiglia.
E poi niente, gli ultimi anni, i prezzi che si alzavano, sono passato al tabacco, prima troppo leggero, poi addirittura apprezzato per il miglior sapore. Da consumatore dozzinale a quasi-estimatore. E alla fine, salvo le serate in cui si beveva o ci si dava alla pazza gioia, non ho mai varcato il limite delle 10 sigarette. Media di sette al giorno. Tanto che in molti mi dicevano “ma perché non smetti?”
Perfino quella stessa ragazza aveva smesso di fumare. Io ho continuato per un bel po’, dopo. L’ultima fase della mia vita, questa fase ancora in corso, è stata segnata dal fumo di sigaretta. Voglio diventare un giornalista e c’ho l’animo del poeta. Fallito, probabilmente, in entrambi i casi. Per me la redazione di un giornale dovrebbe essere piena di ragazzi d’altri tempi che sfumacchiano di fronte a moderni schermi che non riescono a contenere le loro emozioni, e battono su quelle fredde tastiere di plastica mentre si arrovellano sull’aggettivo migliore. E intanto sputano folate di grigiastra aria tossica e assuefacente intrisa di nicotina dalle loro narici, a pochi centimetri da occhiaie vistose, occhi rossastri ma arguti e una barba solo leggermente incolta, che si allunga sotto il mento fino al collo, nudo e un po’imperlato per la fatica e lo stress, cui cerca di darsi sollievo allargando l’asola del primo bottone sul colletto della camicia con una mano mentre le dita dell’altra giocano col nodo della cravatta per allargarne il giogo. Ecco, la redazione in cui trascorro la maggior parte delle ore della mia giornata non assomiglia per niente alla schiera di scrivanie che mi figuro io, ma la nube di fumo c’è. E la prima cosa che ho visto entrando da quella porta la prima volta è stata una figura avvolta dal fumo di sigaretta di fronte ad uno schermo. Non era neppure il mio “capo”, ma tutto quello che è venuto dopo mi è sembrato di sapore più genuino dopo questa premessa. Specie considerando che venivo a uno studio in cui si era costretti ad esiliarsi sul pianerottolo per una paglia.
“Perché non smetti?”. Perché non voglio, ho sempre risposto. Qualche volta il raziocinio mi aveva condotto ad autoimpormi di negarmi le sigarette. Per questioni economiche, soprattutto, mascherate dai vantaggi per la salute. Ma ogni qualvolta ci ho provato non mi è mai riuscito: c’era sempre un nervosismo  da assecondare o un semplice vuoto da riempire con una boccata d’aria grigia e saporita. Massimo dieci giorni. E poi lì le citazioni di Wilde si sprecano e la memoria corre a Svevo, e ti senti intellettualmente giustificato a prosperare nel vizio. Altra verità è la mia costante ricerca di autodistruzione. Mi sono profilato per anni l’idea di perire all’età di 35 anni. Stando allo stile di vita che ho condotto tra i 19 e i 23 anni, stressante da sobrio ed fisicamente – oltre che psichicamente – dannoso all’inverosimile in tutti gli altri momenti liberi, ritenevo che quella vita fosse sostanzialmente bella così. Ma che andasse condotta nel pieno delle facoltà psicofisiche, inevitabilmente tendenti al decadimento entro l’età, appunto dei 35 anni circa. Dopodiché, immaginavo, le strutture e le convenzioni sociali mi avrebbero condotto inevitabilmente a cercare uno stile di vita diverso, non meritevole di essere vissuto, peraltro con addosso il bagaglio di un fisico disastrato dai bagordi e quindi più avvezzo agli acciacchi. Insomma, una condizione di vita che per me sarebbe non-vita. Di quello stile di vita mi è rimasto per lo più solo il fumare nel giro di un paio d’anni. Ma ancora mi piaceva e si inscriveva nella mia sottotraccia di autodistruzione.
Poi qualcosa è cambiato. Ho scoperto che il lavoro che ho sempre voluto fare lo so fare sul serio. Non mi darà i soldi né mi permetterà i ritmi per fare una vita di bagordi, senza contare che a differenza degli eroi adolescenziali sono solo uno come millemila altri. Poco male, tutto sommato. In fondo non ho più nulla a cui sfuggire: la mia vita reale non è l’imposizione di nessun sistema. Tutt’altro. In più fare questa cosa mi piace tanto che non ho nessuna voglia di smettere presto. Quindi l’autodistruzione è bella che rimandata.
Per concludere ho colto la palla al balzo. Un finesettimana particolarmente sobrio, pochi soldi in tasca, una concomitante decisione a cui accodarsi. E quindi ho smesso di fumare. Perché? Perché così ho deciso.
Ora mi fumo sì e no una sigaretta ogni mese. Dimostrazione della volontà che vince su anni di vizio.
Il nostro cervello è potentissimo, sfruttiamolo. Ma ancora di più lo è il nostro cuore. E da lì che vengono le decisioni irrevocabili. Per esempio io non posso lamentarmi se la cosa che più mi piace fare è scrivere. Non avevo nessun motivo per scrivere tutto questo. Ma ne avevo voglia e l’ho fatto. Siamo più liberi di quanto non osiamo ammettere. Perché spesso, se lo ammettessimo, non resterebbe che specchiarci nei fallimenti che non ammetteremo mai.

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