Visualizzazioni totali

20/12/11

Dal 'Caro Leader' al 'Brillante Compagno'


L'opinione pubblica si aspetta stravolgimenti dalla morte di Kim Jong-Il, ma cambiamenti effettivi dello status quo appaiono improbabili



La morte del 'Caro Leader' ha suscitato negli analisti un più o meno condiviso auspicio libertario e democratico. Di Kim Jong-Un non si conosce bene neppure l'età, eppure gli opinionisti di mezzo mondo non fanno altro che ripetere, tra le altre cose, che è un fan dell'NBA, che ha studiato in Svizzera o che è confucianamente troppo giovane per assumere il comando, come se questo bastasse a far prevedere un indebolimento e quindi una svolta nel regime autoritario di Pyongyang. Appare necessario fare un leggero passo indietro. Delle condizioni del popolo nordcoreano si dice molto, il che equivale a non sapere nulla: internet oscurato, il culto dei due defunti Kim come divinità terrestri, l’incoscienza del mondo esterno né tanto meno di quanto accade a loro stessi.
 Lo scenario internazionale che crediamo di conoscere è, però, altrettanto poco trasparente: un rischio calcolato che ci appare al limite con una lucida follia, quando non con un dissennato suicidio globale. In tutto ciò c'è solo una parte di verità. Se da una parte agli USA interessa molto che all'altezza del 38° parallelo si tenga alta la tensione così da non dover smobilitare le sue truppe da un territorio cosi strategico come Seoul, dall'altra la Corea del Nord sente la propria indipendenza minacciata più dalla Cina che dagli stessi Stati Uniti, e per questo Pyongyang ha più volte manifestato la sua volontà di avvicinamento e di normalizzazione delle relazioni chiedendo colloqui bilaterali. Di fatto i nordcoreani sono spinti tra le braccia della Cina per disperazione, poiché messi all'angolo dalla quasi totalità della comunità internazionale che a questa si rivolge costantemente per fare da intermediaria con Pyongyang, mentre i cinesi sono evidentemente anche loro propensi a preservare uno status quo che non ne destabilizzi la supremazia nello scacchiere estremorientale.
 Una tensione, dunque, che piace: gli episodi di violenza tra le due Coree rispondevano ad una dinamica di politica interna. Si sapeva che Kim Jong Il non avrebbe vissuto a lungo, e l'ala militare del governo nordcoreano ne ha verosimilmente approfittato per non rischiare di veder cambiare le cose, considerato che (e in pochi lo ricordano) dalla morte di Kim Il Song nel 1994 erano stati fatti molti passi avanti e molte aperture da parte del 'Caro Leader' sia nei confronti del Sud che di tutta la comunità internazionale. Porte puntualmente chiuse in faccia, tanto per tenersi un comodo nemico-spauracchio pronto all'occorrenza (specie da parte degli USA).

 Kim Jong-Un ha incassato automaticamente la fedeltà del suo popolo, ma rappresenta certamente un'incognita: prima di lui suo padre, che veniva da una assai più lunga e dura formazione, seppe comprendere ed incanalare le volontà della gente, a partire dalla divinizzazione della figura del 'Grande Leader', Presidente Eterno. Il popolo può essere l'unica variabile impazzita di questa equazione: una stretta meno forte sul controllo dell'informazione potrebbe essere, per i vertici del regime, l'errore e dare il via a mobilitazioni nello stile della Primavera Araba. Ma il condizionale è d'obbligo: è impossibile misurare quanto possa sopportare l’indigenza un popolo così lontano dal nostro e non va dimenticato che nel Juche dei Kim si è trovata un'identità nazionale che la storia aveva sempre negato alla Corea. Senza, però, volersi addentrare in ipotetiche psicanalisi collettive, è assai improbabile che le gerarchie militari lascino al 'Brillante Compagno' (questo l'appellativo del prossimo leader nordcoreano) la possibilità di prendere decisioni tali da intaccarne il potere.
 L'unico compromesso possibile potrebbe venire da un avvicinamento economico ed istituzionale del Nord alle condizioni del Sud tramite un lento processo di adattamento, ma oltre alla volontà politica reciproca ci sarebbe bisogno di un atteggiamento più conciliante anche da parte della comunità internazionale, USA su tutti, che invece preferisce tenere la Corea del Nord nel suo status di isolamento e sussistenza. Nuove speranze vengono dai recenti colloqui (maggio 2011) di Pechino tra Hu Jintao e il defunto Kim Jong Il: dal 2003, infatti, le sei potenze interessate (Seoul, Pyongyang, Pechino, Mosca, Tokyo e Washington) avevano aperto un tavolo per gestire collegialmente le tensioni e gli avvicinamenti tra le due Coree. Proprio la issue nucleare era stata uno dei principali motivi di fallimento dei colloqui, interrotti nel 2008, e che sembravano destinati a non riprendere. La recente riapertura, ottenuta ancora una volta mediante intermediazione cinese, risponde all'esigenza nordcoreana di uscire dal suo isolamento, ed è l'ennesima voce contraddittoria di un regime che non può stare fermo: potrebbe anche collassare sotto il peso delle sue crisi. E allora non e impensabile che un successo dei colloqui a sei possa gestire la riunificazione delle due Coree, mediando tra le esigenze di tutte le parti: sebbene l'interesse di tutti sia quello di preservare lo status quo, il totale potrebbe essere differente dalla somma delle parti.

06/12/11

Lacrime Lacoste


 Il governo Monti ha presentato il conto. Un governo tecnico che fa quello che è stato chiamato a fare, dicono tutti: le misure impopolari necessarie che nessuno aveva il coraggio di intraprendere.
Falso.
Ora sono tutti lì ad indignarsi, chi da una parte e chi dall'altra, ma non sta accadendo nulla di inaspettato, nulla di imprevedibile. E neppure nulla di inevitabile. E soprattutto sta accadendo qualcosa di profondamente politico. Politicamente c'è stata l'ennesima resa della sinistra, sempre che ancora così si possa classificare il PD per metà ex-democristiano, per l'altra ex-diessino, a sua volta ex-migliorista. L'ex-sinistra, dunque, una volta tanto che poteva proporsi come alternativa, come novità, e col favore delle elezioni magari sfidare lo status quo, cavalcare i movimenti internazionali, ritrovare la sua anima e rilanciare l'economia, magari con un po' di vantaggio neo-keynesiano... si arrende. Non mi è dato sapere cosa passi per la mente dei leader di questa sinistra, né si capisce quale sia la loro inclinazione economica, ma sicuramente poco hanno degli animi battaglieri di quella classe che ne ha generato i principi, e probabilmente è scomparsa pure dal paese reale. Del resto non sono qui a richiamare la dittatura del proletariato né la collettivizzazione delle fabbriche, ma, magari, un po' di liberalizzazioni dove ci sono le lobby e qualche nazionalizzazione dove ci sono stati un po' troppe beneficenze statali, un po' di caro vecchio compromesso social-democratico fatto di spesa pubblica a sostegno della produttività. Misure che alla lunga avrebbero convinto pure i mercati, magari anche nell'immediato di un'elezione, se ben propagandati. Certo è che non si poteva sbagliare, e questi personaggi, invischiati come sono nelle loro beghe hanno pensato bene (riconosciamogli almeno l'onestà intellettuale) di non potercela fare.
Una sconfitta politica, dunque: o meglio, una resa incondizionata. Stiamo vivendo una crisi tremenda, ma endemica al nostro sistema economico. Il capitalismo è per sua natura portato a sviluppare crisi periodiche, specie nella sua degenerazione finanziaria: dagli anni Ottanta ad oggi la finanza emersa e sommersa dell'asse bancario Wall Street-Londra ha creato ad hoc bolle speculative che hanno sostenuto e danneggiato tutte le fasi della crescita economica sparsa per il mondo negli ultimi trent'anni. Allo scoppio di una bolla, si sopperiva con la nascita di un'altra, verso cui deviare le obbligazioni gonfiate: e via così. Le banche hanno attuato questa pratica sui mercati stranieri fino ad arrivare  in Europa e negli stessi USA capendo di poterlo fare senza soccombere, perché ormai detengono la valuta, detengono i nostri debiti, e "non possiamo" permetterci di lasciarle fallire. Hanno creato ricchezza virtuale, ma in quei numeri c'è il lavoro di tutti noi, e nessuno vuol perderlo. E allora comandano loro, e mettono Monti al governo per risolvere i problemi. E che cosa fa il buon impiegato della Goldman Sachs? "Stranamente" fa austerity. Facile e giustificabile, la crisi c'è, bisogna tagliare tagliare tagliare.
FALSO!
La politica è in tutto, e tutto è politica. Fare Austerity vuol dire perpetrare un pensiero economico vecchio di trent'anni, il pensiero delle politiche neoliberiste che hanno affossato il keynesismo che, pur con i suoi difetti, aveva risollevato l'europa post-bellica, creato produttività, diffuso ricchezza e welfare. Il sistema che ha garantito la formazione dei nostri padri, ha posto le basi del nostro stato sociale, ha permesso di raggiungere diritti ed equità. Non un sistema perfetto, ma un sistema che nei primi anni '80 è stato combattuto dall'1% più ricco della popolazione che non voleva condividere il suo benessere ed il suo potere. La manovra partorita dall'esecutivo di Monti ieri è il vessillo di questa politica economica, e non riesco a credere che il fior fiore della intellighenzia tricolore non potesse produrre di meglio.
Ancora una volta abbiamo ciò che ci meritiamo: i più ricchi gestiscono il mondo a loro piacimento perché hanno saputo addormentare per bene i deboli. Impegnarsi nei movimenti vuol dire essere dei comunisti, dei violenti, essere fuori dalla democrazia. Stare nella democrazia vuol dire, invece, scuotere la testa e votare sì. Io invece credo che, rimossa l'anomalia berlusconiana, bisogna riappropiarsi della politica e della democrazia. Non si può più essere bollati con etichette affrettate se si esprime un pensiero scendendo in piazza: un'idea è un'idea e come tale deve essere rispettata nella sua intonsa, perfetta, formidabile consistenza iperuranica. Alle istituzioni sta il compito di valutarne il peso, che deve essere proporzionale alle persone che scendono in piazza, e soprattutto sta il compito di rispettare quell'idea. Scontrandosi con la realtà l'idea farà il suo iter democratico, ma che lo faccia.
 Io, per esempio, piuttosto che bloccare gli assegni delle pensioni per due anni a gente che magari ha sulle spalle nipoti che non trovano lavoro, avrei tassato i prodotti finanziari agli speculatori che creano ricchezza virtuale. La mia è solo un'idea. Se nessuno la porta avanti non possiamo lamentarci di nulla. Non posso lamentarmi di nulla.