In origine era un vezzo, un segreto vanto, un’evasione. Poi
un’abitudine, un vizio, questa era stata l’evoluzione, malevola. Cultura, film,
immaginario musicale. Caducità ricercata, ammirata, da sperimentare. Com’è
nata? La prima volta, ricordo, fu per amore. Nascosto, taciuto, adolescenziale.
Tremendamente simile ad un film di bassa lega, com’era la vita che vivevo all’epoca,
del resto. Alto tasso di serenità e fortuna da vendere, col senno di poi. Un
piagnucoloso mal di vivere perenne, in itere. Del resto la scarsa capacità di
socializzare ti porta a sublimare, raccogliere maree di pensieri prima sui
foglietti e poi (triste evoluzione) magari anche sulla tastiera di un pc. In
entrambi i casi fai di tutto per nasconderli mentre in fondo al cuore vorresti
dannatamente che qualcuno li trovasse per dirti “bravo”. Come quella marea di
personaggi dei fumetti, dei libri, dei film e dei telefilm americani. Come
Dumbo. Tutti lo prendevano in giro per le sue grandi orecchie, ma saranno
proprio quelle a farlo volare, a renderlo speciale, a dimostrare che per essere
migliori bisogna essere diversi. E questa piccola speranza albergava anche in
me, che in fondo speravo che quelle righe finisse per leggerle quel
destinatario a cui non vennero mai spedite, che le trovasse sublimi,
impareggiabili, trasformandomi da goffo elefante sgraziato a stupefacente
meraviglia della natura. Ma si impara, ahimé, troppo presto – o forse troppo
tardi – che il mondo pullula di gente mediocre, normale, consueta, e che tu
sei, con ogni probabilità, una di quelle. Inutile che ti crogioli nelle pacche
confortanti dei più stretti. Loro, probabilmente, sono solo peggio di te.
Troppo facile essere meglio di loro, sentirsi “bravo” in mezzo ai mediocri. Ma
si parlava di amore e fumo. Quando, insomma, cerchi di misurarti con un po’ del
mondo reale che per troppo tempo ti è mancato e di fronte al quale ti senti
terribilmente impreparato, vuoi fare tutto in fretta, e l’ondata ti travolge
con un’alternanza di inettitudine e godimento. Dove eri stato fino a quel
momento? Cosa avevi vissuto prima di allora? No, no. Non sto parlando di
nessuna esperienza psichedelica. Una semplice chiacchiera davanti ad una birra,
per me, era questo. Trascorrere il tempo con persone che, più o meno, avevano
voglia di passarlo con me, era per me la novità. Anche il solo non essere
rifiutato da un gruppo di persone, per me, era qualcosa. Anche se stavo in
disparte ad ascoltare, anche senza condividere ero coinvolto. E di tanto in
tanto potevo dire pure io la mia. Magico. E poi stando in mezzo agli altri ti
ritrovi a trascorrere una mattinata di quelle in cui c’era stata un’assemblea,
o una manifestazione o uno sciopero. Forse è primavera, forse è autunno: l’importante
è che non piova. Se piove ci infiliamo giù in saletta, ma lì ci vedono in
tanti, la gente passa. Il paese è piccolo. Il problema in realtà è solo mio. Per
lo più nella mia testa. Meglio, molto meglio i giardinetti scoscesi dietro la
scuola. Qualche gradino e sei lì, dove nessuno può vederti. Lì tante ore passavano
tra bottiglie di birra scadente, ma economica e col tappo a vite, tracannate di
soppiatto mentre pendevo dalle labbra di ragazzi che mi sembravano venire da un
altro pianeta, e invece ero io l’alieno buffo e me ne rendevo sempre più conto.
E parlavano di musica e di personaggi che nella migliore delle ipotesi a
malapena avevo sentito nominare, passandomi di tanto in tanto una cuffietta del
loro lettore cd portatile. Un must have
superambìto che in meno di dieci anni è diventato poco più di un cimelio. E insomma
lì di sigarette ne erano girate a iosa. Spesso si vedeva anche qualche spinello:
la temutissima droga che non avrei mai pensato di poter vedere era maneggiata
con dimestichezza da gente a cui davo del tu. Ma io non avevo mai ceduto agli
inviti. Sempre perfettino, sempre bravo ragazzo, sempre impeccabile. Solo alle
birre avevo ceduto in qualche occasione, sempre più spesso, come se fossero più
facili da nascondere. Eppure la sigaretta ti dava quella maggiore sensazione di
“errore”. Forse perché sin dall’infanzia cercano di spiegarti che fa male, che
fa male a chi ti sta intorno, che devi convincere la gente a smettere, che se
ti vedo con una sigaretta in mano ti taglio le mani. E invece il nonno un mezzo
bicchiere di vino allungato con tre quarti di acqua te lo faceva bere anche a
sei-sette anni. Iniziai a bere ascoltando musica, per guardarmi dall’esterno,
per sperimentare i miei istinti perennemente domati e perché in quelle nuove
parole e suoni, per lo più vecchi di trent’anni e passa, trovavo sfogo e
propagazione del mio animo. Ma la sigaretta è tutto un fatto di stile.
Logicamente, razionalmente inutile e dannoso. Non volevo autodistruggermi, non
ancora. Però ogni tanto si inserisce quella variabile che non ti aspetti.
Maledette donne. Ai miei compagni avrei potuto continuare a dire no senza
problemi. Poi arriva quella ragazza, quella a cui tu non fai che pensare mentre
ascolti la tua nuova musica. Che ci fa lì? Non è che stia con voi così spesso
fuori dalle mura del liceo. E a te fa piacere, ti sembra che il fatto che
stiate condividendo pezzetti di vita vi darà delle memorie in comune. Un
qualcosa che vi legherà inevitabilmente, tanto più se di contorno ci saranno un
po’ di risate. Perfino lei fuma, chi l’avrebbe detto solo pochi mesi fa. È più
simile di me al mio gruppo, alla mia compagnia. Sono proprio un alieno. Siete
amici, studiate insieme. E poi che fa? Lei ti spinge a fare un tiro, uno solo. “Prova”.
E lo fai, impugni con le due dita la tossica bacchetta, già fumante, e posi le labbra
dove poco prima erano state le sue. Ma non pensi a questo, non pensi a niente.
Sarebbe poetico, certo, mitizzare su questo platonico bacio tossico. Tuttavia l’unica
cosa che ti preme è non fare figure di merda, non lì davanti a quella manciata
di coetanei che per te rappresentano l’ossigeno, la sopravvivenza. Senza
saresti il nulla, e ritorneresti a quella tua vita senza vita di non tanti mesi
prima. Non pensi che lei ti amerà, non pensi che loro ti vorranno più bene di
quel poco che ti cagano adesso. Vuoi semplicemente che le cose durino come
sono. Dai un tiro, inspiri. Da un’estremità il tabacco e la carta in cui è
arrotolata si colorano come un tizzone, bruciando e mutandosi in cenere. Dall’altra
l’aria grigiastra e pregna di nicotina riempie le mie fauci vergini, bruciando
la lingua e irritando le pareti della gola. A malapena mando giù, ma riesco a
non tossire fragorosamente. Meglio di quanto pensassi. Già immaginavo scene
tragicomiche da telefilm. “Non hai aspirato”. Dicono tutti. “Ma che ci trovate?”
rintuzza un amico, deciso non fumatore con molta più spina dorsale di me, all’epoca.
Non ho certo cominciato a fumare per colpa di questa
ragazza, comunque. Ma il primo tiro fu con lei. Poi, insomma, uno cerca di
darsi un tono. Fatto una volta lo provi un’altra. Il senso di evasione ti
piace, soprattutto la disobbedienza. Soprattutto se da te non se l’aspettano,
insieme ai genitori, più o meno tutti gli educatori avuti nel corso della tua
formazione scolastica. Mi piaceva rompere i loro schemi, con un semplice gesto,
sia pure di nascosto. Ora nessuna logica potrebbe sostenerlo, ma al tempo per
me era così. Ed era importante. È sempre una questione di punti di vista.
Sempre.
Si comincia con un tiro ogni tanto, magari l’ultimo prima
che l’amico la butti. Poi una sera alla terza birra inizi a scroccarla. Fumare
dopo qualche birra è davvero bello, è come se il tabacco fosse nato per questo,
per sfondarti i polmoni passando dalla trachea mentre a pochi millimetri dall’esofago
arrivi a sfondarti il fegato. Non hai nemmeno 18 anni, sei immortale, e d’altra
parte nella storia c’è chi è diventato una rockstar senza nemmeno saper
suonare. Che si fotta la salute, la vita non ha senso. Magari scriverò un
libro.
Invece, più di un anno dopo, le sigarette le compro solo una
volta tanto. Per lo più le scrocco. Io non finirò nel giro, sembro dire, io
faccio come mi pare. E alla fine ho avuto ragione. Sarà stato il troppo alcool
o la troppa cattiva, meravigliosa compagnia. Ci sono voluti due anni per farmi
diventare un fumatore regolare. Che roba, a 20 anni, mentre vedevo gente che
addirittura si sforzava di smettere dopo una carriera da liceale turco, io
cominciavo. Raziocinio diceva che ero uno stronzo. Ma una serie di circostanze
miste alla precedente, ormai acquisita, abitudine, trasformarono lo sfizio in
esigenza iterata. Quindi in vizio.
Colpo di grazia fu il mio primo viaggio in Cina. La prima
vacanza dopo anni, una compagnia fantastica e un’esigenza senza precedenti di
avere la consapevolezza di stare per un mese ad un emisfero di distanza da ogni
problema o presunto tale. Questo il quadro. Poi inseriscici che un pacchetto da
20 costava 50cent. Davvero troppo facile prendere a fumare con assiduità
dannosa.
Le cose poi sono proseguite pacificamente, destreggiandomi
tra la progressiva consapevolezza di mia madre, che mai ha potuto sopportare
questa mia dipendenza e infatti mai mi ha visto fumare, e mio padre, che fino a
pochi mesi fa ancora fumava “di nascosto” (e forse lo continua a fare). Da
chiunque in famiglia.
E poi niente, gli ultimi anni, i prezzi che si alzavano,
sono passato al tabacco, prima troppo leggero, poi addirittura apprezzato per
il miglior sapore. Da consumatore dozzinale a quasi-estimatore. E alla fine,
salvo le serate in cui si beveva o ci si dava alla pazza gioia, non ho mai
varcato il limite delle 10 sigarette. Media di sette al giorno. Tanto che in
molti mi dicevano “ma perché non smetti?”
Perfino quella stessa ragazza aveva smesso di fumare. Io ho
continuato per un bel po’, dopo. L’ultima fase della mia vita, questa fase
ancora in corso, è stata segnata dal fumo di sigaretta. Voglio diventare un
giornalista e c’ho l’animo del poeta. Fallito, probabilmente, in entrambi i
casi. Per me la redazione di un giornale dovrebbe essere piena di ragazzi d’altri
tempi che sfumacchiano di fronte a moderni schermi che non riescono a contenere
le loro emozioni, e battono su quelle fredde tastiere di plastica mentre si
arrovellano sull’aggettivo migliore. E intanto sputano folate di grigiastra
aria tossica e assuefacente intrisa di nicotina dalle loro narici, a pochi
centimetri da occhiaie vistose, occhi rossastri ma arguti e una barba solo
leggermente incolta, che si allunga sotto il mento fino al collo, nudo e un po’imperlato
per la fatica e lo stress, cui cerca di darsi sollievo allargando l’asola del
primo bottone sul colletto della camicia con una mano mentre le dita dell’altra
giocano col nodo della cravatta per allargarne il giogo. Ecco, la redazione in
cui trascorro la maggior parte delle ore della mia giornata non assomiglia per
niente alla schiera di scrivanie che mi figuro io, ma la nube di fumo c’è. E la
prima cosa che ho visto entrando da quella porta la prima volta è stata una
figura avvolta dal fumo di sigaretta di fronte ad uno schermo. Non era neppure
il mio “capo”, ma tutto quello che è venuto dopo mi è sembrato di sapore più
genuino dopo questa premessa. Specie considerando che venivo a uno studio in
cui si era costretti ad esiliarsi sul pianerottolo per una paglia.
“Perché non smetti?”. Perché non voglio, ho sempre risposto.
Qualche volta il raziocinio mi aveva condotto ad autoimpormi di negarmi le
sigarette. Per questioni economiche, soprattutto, mascherate dai vantaggi per la
salute. Ma ogni qualvolta ci ho provato non mi è mai riuscito: c’era sempre un
nervosismo da assecondare o un semplice
vuoto da riempire con una boccata d’aria grigia e saporita. Massimo dieci giorni.
E poi lì le citazioni di Wilde si sprecano e la memoria corre a Svevo, e ti
senti intellettualmente giustificato a prosperare nel vizio. Altra verità è la
mia costante ricerca di autodistruzione. Mi sono profilato per anni l’idea di
perire all’età di 35 anni. Stando allo stile di vita che ho condotto tra i 19 e
i 23 anni, stressante da sobrio ed fisicamente – oltre che psichicamente – dannoso
all’inverosimile in tutti gli altri momenti liberi, ritenevo che quella vita
fosse sostanzialmente bella così. Ma che andasse condotta nel pieno delle
facoltà psicofisiche, inevitabilmente tendenti al decadimento entro l’età,
appunto dei 35 anni circa. Dopodiché, immaginavo, le strutture e le convenzioni
sociali mi avrebbero condotto inevitabilmente a cercare uno stile di vita
diverso, non meritevole di essere vissuto, peraltro con addosso il bagaglio di
un fisico disastrato dai bagordi e quindi più avvezzo agli acciacchi. Insomma,
una condizione di vita che per me sarebbe non-vita. Di quello stile di vita mi
è rimasto per lo più solo il fumare nel giro di un paio d’anni. Ma ancora mi
piaceva e si inscriveva nella mia sottotraccia di autodistruzione.
Poi qualcosa è cambiato. Ho scoperto che il lavoro che ho
sempre voluto fare lo so fare sul serio. Non mi darà i soldi né mi permetterà i
ritmi per fare una vita di bagordi, senza contare che a differenza degli eroi
adolescenziali sono solo uno come millemila altri. Poco male, tutto sommato. In
fondo non ho più nulla a cui sfuggire: la mia vita reale non è l’imposizione di
nessun sistema. Tutt’altro. In più fare questa cosa mi piace tanto che non ho
nessuna voglia di smettere presto. Quindi l’autodistruzione è bella che
rimandata.
Per concludere ho colto la palla al balzo. Un finesettimana
particolarmente sobrio, pochi soldi in tasca, una concomitante decisione a cui
accodarsi. E quindi ho smesso di fumare. Perché? Perché così ho deciso.
Ora mi fumo sì e no una sigaretta ogni mese. Dimostrazione
della volontà che vince su anni di vizio.
Il nostro cervello è potentissimo, sfruttiamolo. Ma ancora
di più lo è il nostro cuore. E da lì che vengono le decisioni irrevocabili. Per
esempio io non posso lamentarmi se la cosa che più mi piace fare è scrivere.
Non avevo nessun motivo per scrivere tutto questo. Ma ne avevo voglia e l’ho fatto.
Siamo più liberi di quanto non osiamo ammettere. Perché spesso, se lo
ammettessimo, non resterebbe che specchiarci nei fallimenti che non ammetteremo
mai.