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27/03/13

Non fumo più.



In origine era un vezzo, un segreto vanto, un’evasione. Poi un’abitudine, un vizio, questa era stata l’evoluzione, malevola. Cultura, film, immaginario musicale. Caducità ricercata, ammirata, da sperimentare. Com’è nata? La prima volta, ricordo, fu per amore. Nascosto, taciuto, adolescenziale. Tremendamente simile ad un film di bassa lega, com’era la vita che vivevo all’epoca, del resto. Alto tasso di serenità e fortuna da vendere, col senno di poi. Un piagnucoloso mal di vivere perenne, in itere. Del resto la scarsa capacità di socializzare ti porta a sublimare, raccogliere maree di pensieri prima sui foglietti e poi (triste evoluzione) magari anche sulla tastiera di un pc. In entrambi i casi fai di tutto per nasconderli mentre in fondo al cuore vorresti dannatamente che qualcuno li trovasse per dirti “bravo”. Come quella marea di personaggi dei fumetti, dei libri, dei film e dei telefilm americani. Come Dumbo. Tutti lo prendevano in giro per le sue grandi orecchie, ma saranno proprio quelle a farlo volare, a renderlo speciale, a dimostrare che per essere migliori bisogna essere diversi. E questa piccola speranza albergava anche in me, che in fondo speravo che quelle righe finisse per leggerle quel destinatario a cui non vennero mai spedite, che le trovasse sublimi, impareggiabili, trasformandomi da goffo elefante sgraziato a stupefacente meraviglia della natura. Ma si impara, ahimé, troppo presto – o forse troppo tardi – che il mondo pullula di gente mediocre, normale, consueta, e che tu sei, con ogni probabilità, una di quelle. Inutile che ti crogioli nelle pacche confortanti dei più stretti. Loro, probabilmente, sono solo peggio di te. Troppo facile essere meglio di loro, sentirsi “bravo” in mezzo ai mediocri. Ma si parlava di amore e fumo. Quando, insomma, cerchi di misurarti con un po’ del mondo reale che per troppo tempo ti è mancato e di fronte al quale ti senti terribilmente impreparato, vuoi fare tutto in fretta, e l’ondata ti travolge con un’alternanza di inettitudine e godimento. Dove eri stato fino a quel momento? Cosa avevi vissuto prima di allora? No, no. Non sto parlando di nessuna esperienza psichedelica. Una semplice chiacchiera davanti ad una birra, per me, era questo. Trascorrere il tempo con persone che, più o meno, avevano voglia di passarlo con me, era per me la novità. Anche il solo non essere rifiutato da un gruppo di persone, per me, era qualcosa. Anche se stavo in disparte ad ascoltare, anche senza condividere ero coinvolto. E di tanto in tanto potevo dire pure io la mia. Magico. E poi stando in mezzo agli altri ti ritrovi a trascorrere una mattinata di quelle in cui c’era stata un’assemblea, o una manifestazione o uno sciopero. Forse è primavera, forse è autunno: l’importante è che non piova. Se piove ci infiliamo giù in saletta, ma lì ci vedono in tanti, la gente passa. Il paese è piccolo. Il problema in realtà è solo mio. Per lo più nella mia testa. Meglio, molto meglio i giardinetti scoscesi dietro la scuola. Qualche gradino e sei lì, dove nessuno può vederti. Lì tante ore passavano tra bottiglie di birra scadente, ma economica e col tappo a vite, tracannate di soppiatto mentre pendevo dalle labbra di ragazzi che mi sembravano venire da un altro pianeta, e invece ero io l’alieno buffo e me ne rendevo sempre più conto. E parlavano di musica e di personaggi che nella migliore delle ipotesi a malapena avevo sentito nominare, passandomi di tanto in tanto una cuffietta del loro lettore cd portatile. Un must have superambìto che in meno di dieci anni è diventato poco più di un cimelio. E insomma lì di sigarette ne erano girate a iosa. Spesso si vedeva anche qualche spinello: la temutissima droga che non avrei mai pensato di poter vedere era maneggiata con dimestichezza da gente a cui davo del tu. Ma io non avevo mai ceduto agli inviti. Sempre perfettino, sempre bravo ragazzo, sempre impeccabile. Solo alle birre avevo ceduto in qualche occasione, sempre più spesso, come se fossero più facili da nascondere. Eppure la sigaretta ti dava quella maggiore sensazione di “errore”. Forse perché sin dall’infanzia cercano di spiegarti che fa male, che fa male a chi ti sta intorno, che devi convincere la gente a smettere, che se ti vedo con una sigaretta in mano ti taglio le mani. E invece il nonno un mezzo bicchiere di vino allungato con tre quarti di acqua te lo faceva bere anche a sei-sette anni. Iniziai a bere ascoltando musica, per guardarmi dall’esterno, per sperimentare i miei istinti perennemente domati e perché in quelle nuove parole e suoni, per lo più vecchi di trent’anni e passa, trovavo sfogo e propagazione del mio animo. Ma la sigaretta è tutto un fatto di stile. Logicamente, razionalmente inutile e dannoso. Non volevo autodistruggermi, non ancora. Però ogni tanto si inserisce quella variabile che non ti aspetti. Maledette donne. Ai miei compagni avrei potuto continuare a dire no senza problemi. Poi arriva quella ragazza, quella a cui tu non fai che pensare mentre ascolti la tua nuova musica. Che ci fa lì? Non è che stia con voi così spesso fuori dalle mura del liceo. E a te fa piacere, ti sembra che il fatto che stiate condividendo pezzetti di vita vi darà delle memorie in comune. Un qualcosa che vi legherà inevitabilmente, tanto più se di contorno ci saranno un po’ di risate. Perfino lei fuma, chi l’avrebbe detto solo pochi mesi fa. È più simile di me al mio gruppo, alla mia compagnia. Sono proprio un alieno. Siete amici, studiate insieme. E poi che fa? Lei ti spinge a fare un tiro, uno solo. “Prova”. E lo fai, impugni con le due dita la tossica bacchetta, già fumante, e posi le labbra dove poco prima erano state le sue. Ma non pensi a questo, non pensi a niente. Sarebbe poetico, certo, mitizzare su questo platonico bacio tossico. Tuttavia l’unica cosa che ti preme è non fare figure di merda, non lì davanti a quella manciata di coetanei che per te rappresentano l’ossigeno, la sopravvivenza. Senza saresti il nulla, e ritorneresti a quella tua vita senza vita di non tanti mesi prima. Non pensi che lei ti amerà, non pensi che loro ti vorranno più bene di quel poco che ti cagano adesso. Vuoi semplicemente che le cose durino come sono. Dai un tiro, inspiri. Da un’estremità il tabacco e la carta in cui è arrotolata si colorano come un tizzone, bruciando e mutandosi in cenere. Dall’altra l’aria grigiastra e pregna di nicotina riempie le mie fauci vergini, bruciando la lingua e irritando le pareti della gola. A malapena mando giù, ma riesco a non tossire fragorosamente. Meglio di quanto pensassi. Già immaginavo scene tragicomiche da telefilm. “Non hai aspirato”. Dicono tutti. “Ma che ci trovate?” rintuzza un amico, deciso non fumatore con molta più spina dorsale di me, all’epoca.
Non ho certo cominciato a fumare per colpa di questa ragazza, comunque. Ma il primo tiro fu con lei. Poi, insomma, uno cerca di darsi un tono. Fatto una volta lo provi un’altra. Il senso di evasione ti piace, soprattutto la disobbedienza. Soprattutto se da te non se l’aspettano, insieme ai genitori, più o meno tutti gli educatori avuti nel corso della tua formazione scolastica. Mi piaceva rompere i loro schemi, con un semplice gesto, sia pure di nascosto. Ora nessuna logica potrebbe sostenerlo, ma al tempo per me era così. Ed era importante. È sempre una questione di punti di vista. Sempre.
Si comincia con un tiro ogni tanto, magari l’ultimo prima che l’amico la butti. Poi una sera alla terza birra inizi a scroccarla. Fumare dopo qualche birra è davvero bello, è come se il tabacco fosse nato per questo, per sfondarti i polmoni passando dalla trachea mentre a pochi millimetri dall’esofago arrivi a sfondarti il fegato. Non hai nemmeno 18 anni, sei immortale, e d’altra parte nella storia c’è chi è diventato una rockstar senza nemmeno saper suonare. Che si fotta la salute, la vita non ha senso. Magari scriverò un libro.
Invece, più di un anno dopo, le sigarette le compro solo una volta tanto. Per lo più le scrocco. Io non finirò nel giro, sembro dire, io faccio come mi pare. E alla fine ho avuto ragione. Sarà stato il troppo alcool o la troppa cattiva, meravigliosa compagnia. Ci sono voluti due anni per farmi diventare un fumatore regolare. Che roba, a 20 anni, mentre vedevo gente che addirittura si sforzava di smettere dopo una carriera da liceale turco, io cominciavo. Raziocinio diceva che ero uno stronzo. Ma una serie di circostanze miste alla precedente, ormai acquisita, abitudine, trasformarono lo sfizio in esigenza iterata. Quindi in vizio.
Colpo di grazia fu il mio primo viaggio in Cina. La prima vacanza dopo anni, una compagnia fantastica e un’esigenza senza precedenti di avere la consapevolezza di stare per un mese ad un emisfero di distanza da ogni problema o presunto tale. Questo il quadro. Poi inseriscici che un pacchetto da 20 costava 50cent. Davvero troppo facile prendere a fumare con assiduità dannosa.
Le cose poi sono proseguite pacificamente, destreggiandomi tra la progressiva consapevolezza di mia madre, che mai ha potuto sopportare questa mia dipendenza e infatti mai mi ha visto fumare, e mio padre, che fino a pochi mesi fa ancora fumava “di nascosto” (e forse lo continua a fare). Da chiunque in famiglia.
E poi niente, gli ultimi anni, i prezzi che si alzavano, sono passato al tabacco, prima troppo leggero, poi addirittura apprezzato per il miglior sapore. Da consumatore dozzinale a quasi-estimatore. E alla fine, salvo le serate in cui si beveva o ci si dava alla pazza gioia, non ho mai varcato il limite delle 10 sigarette. Media di sette al giorno. Tanto che in molti mi dicevano “ma perché non smetti?”
Perfino quella stessa ragazza aveva smesso di fumare. Io ho continuato per un bel po’, dopo. L’ultima fase della mia vita, questa fase ancora in corso, è stata segnata dal fumo di sigaretta. Voglio diventare un giornalista e c’ho l’animo del poeta. Fallito, probabilmente, in entrambi i casi. Per me la redazione di un giornale dovrebbe essere piena di ragazzi d’altri tempi che sfumacchiano di fronte a moderni schermi che non riescono a contenere le loro emozioni, e battono su quelle fredde tastiere di plastica mentre si arrovellano sull’aggettivo migliore. E intanto sputano folate di grigiastra aria tossica e assuefacente intrisa di nicotina dalle loro narici, a pochi centimetri da occhiaie vistose, occhi rossastri ma arguti e una barba solo leggermente incolta, che si allunga sotto il mento fino al collo, nudo e un po’imperlato per la fatica e lo stress, cui cerca di darsi sollievo allargando l’asola del primo bottone sul colletto della camicia con una mano mentre le dita dell’altra giocano col nodo della cravatta per allargarne il giogo. Ecco, la redazione in cui trascorro la maggior parte delle ore della mia giornata non assomiglia per niente alla schiera di scrivanie che mi figuro io, ma la nube di fumo c’è. E la prima cosa che ho visto entrando da quella porta la prima volta è stata una figura avvolta dal fumo di sigaretta di fronte ad uno schermo. Non era neppure il mio “capo”, ma tutto quello che è venuto dopo mi è sembrato di sapore più genuino dopo questa premessa. Specie considerando che venivo a uno studio in cui si era costretti ad esiliarsi sul pianerottolo per una paglia.
“Perché non smetti?”. Perché non voglio, ho sempre risposto. Qualche volta il raziocinio mi aveva condotto ad autoimpormi di negarmi le sigarette. Per questioni economiche, soprattutto, mascherate dai vantaggi per la salute. Ma ogni qualvolta ci ho provato non mi è mai riuscito: c’era sempre un nervosismo  da assecondare o un semplice vuoto da riempire con una boccata d’aria grigia e saporita. Massimo dieci giorni. E poi lì le citazioni di Wilde si sprecano e la memoria corre a Svevo, e ti senti intellettualmente giustificato a prosperare nel vizio. Altra verità è la mia costante ricerca di autodistruzione. Mi sono profilato per anni l’idea di perire all’età di 35 anni. Stando allo stile di vita che ho condotto tra i 19 e i 23 anni, stressante da sobrio ed fisicamente – oltre che psichicamente – dannoso all’inverosimile in tutti gli altri momenti liberi, ritenevo che quella vita fosse sostanzialmente bella così. Ma che andasse condotta nel pieno delle facoltà psicofisiche, inevitabilmente tendenti al decadimento entro l’età, appunto dei 35 anni circa. Dopodiché, immaginavo, le strutture e le convenzioni sociali mi avrebbero condotto inevitabilmente a cercare uno stile di vita diverso, non meritevole di essere vissuto, peraltro con addosso il bagaglio di un fisico disastrato dai bagordi e quindi più avvezzo agli acciacchi. Insomma, una condizione di vita che per me sarebbe non-vita. Di quello stile di vita mi è rimasto per lo più solo il fumare nel giro di un paio d’anni. Ma ancora mi piaceva e si inscriveva nella mia sottotraccia di autodistruzione.
Poi qualcosa è cambiato. Ho scoperto che il lavoro che ho sempre voluto fare lo so fare sul serio. Non mi darà i soldi né mi permetterà i ritmi per fare una vita di bagordi, senza contare che a differenza degli eroi adolescenziali sono solo uno come millemila altri. Poco male, tutto sommato. In fondo non ho più nulla a cui sfuggire: la mia vita reale non è l’imposizione di nessun sistema. Tutt’altro. In più fare questa cosa mi piace tanto che non ho nessuna voglia di smettere presto. Quindi l’autodistruzione è bella che rimandata.
Per concludere ho colto la palla al balzo. Un finesettimana particolarmente sobrio, pochi soldi in tasca, una concomitante decisione a cui accodarsi. E quindi ho smesso di fumare. Perché? Perché così ho deciso.
Ora mi fumo sì e no una sigaretta ogni mese. Dimostrazione della volontà che vince su anni di vizio.
Il nostro cervello è potentissimo, sfruttiamolo. Ma ancora di più lo è il nostro cuore. E da lì che vengono le decisioni irrevocabili. Per esempio io non posso lamentarmi se la cosa che più mi piace fare è scrivere. Non avevo nessun motivo per scrivere tutto questo. Ma ne avevo voglia e l’ho fatto. Siamo più liberi di quanto non osiamo ammettere. Perché spesso, se lo ammettessimo, non resterebbe che specchiarci nei fallimenti che non ammetteremo mai.

19/02/13

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20/12/11

Dal 'Caro Leader' al 'Brillante Compagno'


L'opinione pubblica si aspetta stravolgimenti dalla morte di Kim Jong-Il, ma cambiamenti effettivi dello status quo appaiono improbabili



La morte del 'Caro Leader' ha suscitato negli analisti un più o meno condiviso auspicio libertario e democratico. Di Kim Jong-Un non si conosce bene neppure l'età, eppure gli opinionisti di mezzo mondo non fanno altro che ripetere, tra le altre cose, che è un fan dell'NBA, che ha studiato in Svizzera o che è confucianamente troppo giovane per assumere il comando, come se questo bastasse a far prevedere un indebolimento e quindi una svolta nel regime autoritario di Pyongyang. Appare necessario fare un leggero passo indietro. Delle condizioni del popolo nordcoreano si dice molto, il che equivale a non sapere nulla: internet oscurato, il culto dei due defunti Kim come divinità terrestri, l’incoscienza del mondo esterno né tanto meno di quanto accade a loro stessi.
 Lo scenario internazionale che crediamo di conoscere è, però, altrettanto poco trasparente: un rischio calcolato che ci appare al limite con una lucida follia, quando non con un dissennato suicidio globale. In tutto ciò c'è solo una parte di verità. Se da una parte agli USA interessa molto che all'altezza del 38° parallelo si tenga alta la tensione così da non dover smobilitare le sue truppe da un territorio cosi strategico come Seoul, dall'altra la Corea del Nord sente la propria indipendenza minacciata più dalla Cina che dagli stessi Stati Uniti, e per questo Pyongyang ha più volte manifestato la sua volontà di avvicinamento e di normalizzazione delle relazioni chiedendo colloqui bilaterali. Di fatto i nordcoreani sono spinti tra le braccia della Cina per disperazione, poiché messi all'angolo dalla quasi totalità della comunità internazionale che a questa si rivolge costantemente per fare da intermediaria con Pyongyang, mentre i cinesi sono evidentemente anche loro propensi a preservare uno status quo che non ne destabilizzi la supremazia nello scacchiere estremorientale.
 Una tensione, dunque, che piace: gli episodi di violenza tra le due Coree rispondevano ad una dinamica di politica interna. Si sapeva che Kim Jong Il non avrebbe vissuto a lungo, e l'ala militare del governo nordcoreano ne ha verosimilmente approfittato per non rischiare di veder cambiare le cose, considerato che (e in pochi lo ricordano) dalla morte di Kim Il Song nel 1994 erano stati fatti molti passi avanti e molte aperture da parte del 'Caro Leader' sia nei confronti del Sud che di tutta la comunità internazionale. Porte puntualmente chiuse in faccia, tanto per tenersi un comodo nemico-spauracchio pronto all'occorrenza (specie da parte degli USA).

 Kim Jong-Un ha incassato automaticamente la fedeltà del suo popolo, ma rappresenta certamente un'incognita: prima di lui suo padre, che veniva da una assai più lunga e dura formazione, seppe comprendere ed incanalare le volontà della gente, a partire dalla divinizzazione della figura del 'Grande Leader', Presidente Eterno. Il popolo può essere l'unica variabile impazzita di questa equazione: una stretta meno forte sul controllo dell'informazione potrebbe essere, per i vertici del regime, l'errore e dare il via a mobilitazioni nello stile della Primavera Araba. Ma il condizionale è d'obbligo: è impossibile misurare quanto possa sopportare l’indigenza un popolo così lontano dal nostro e non va dimenticato che nel Juche dei Kim si è trovata un'identità nazionale che la storia aveva sempre negato alla Corea. Senza, però, volersi addentrare in ipotetiche psicanalisi collettive, è assai improbabile che le gerarchie militari lascino al 'Brillante Compagno' (questo l'appellativo del prossimo leader nordcoreano) la possibilità di prendere decisioni tali da intaccarne il potere.
 L'unico compromesso possibile potrebbe venire da un avvicinamento economico ed istituzionale del Nord alle condizioni del Sud tramite un lento processo di adattamento, ma oltre alla volontà politica reciproca ci sarebbe bisogno di un atteggiamento più conciliante anche da parte della comunità internazionale, USA su tutti, che invece preferisce tenere la Corea del Nord nel suo status di isolamento e sussistenza. Nuove speranze vengono dai recenti colloqui (maggio 2011) di Pechino tra Hu Jintao e il defunto Kim Jong Il: dal 2003, infatti, le sei potenze interessate (Seoul, Pyongyang, Pechino, Mosca, Tokyo e Washington) avevano aperto un tavolo per gestire collegialmente le tensioni e gli avvicinamenti tra le due Coree. Proprio la issue nucleare era stata uno dei principali motivi di fallimento dei colloqui, interrotti nel 2008, e che sembravano destinati a non riprendere. La recente riapertura, ottenuta ancora una volta mediante intermediazione cinese, risponde all'esigenza nordcoreana di uscire dal suo isolamento, ed è l'ennesima voce contraddittoria di un regime che non può stare fermo: potrebbe anche collassare sotto il peso delle sue crisi. E allora non e impensabile che un successo dei colloqui a sei possa gestire la riunificazione delle due Coree, mediando tra le esigenze di tutte le parti: sebbene l'interesse di tutti sia quello di preservare lo status quo, il totale potrebbe essere differente dalla somma delle parti.

06/12/11

Lacrime Lacoste


 Il governo Monti ha presentato il conto. Un governo tecnico che fa quello che è stato chiamato a fare, dicono tutti: le misure impopolari necessarie che nessuno aveva il coraggio di intraprendere.
Falso.
Ora sono tutti lì ad indignarsi, chi da una parte e chi dall'altra, ma non sta accadendo nulla di inaspettato, nulla di imprevedibile. E neppure nulla di inevitabile. E soprattutto sta accadendo qualcosa di profondamente politico. Politicamente c'è stata l'ennesima resa della sinistra, sempre che ancora così si possa classificare il PD per metà ex-democristiano, per l'altra ex-diessino, a sua volta ex-migliorista. L'ex-sinistra, dunque, una volta tanto che poteva proporsi come alternativa, come novità, e col favore delle elezioni magari sfidare lo status quo, cavalcare i movimenti internazionali, ritrovare la sua anima e rilanciare l'economia, magari con un po' di vantaggio neo-keynesiano... si arrende. Non mi è dato sapere cosa passi per la mente dei leader di questa sinistra, né si capisce quale sia la loro inclinazione economica, ma sicuramente poco hanno degli animi battaglieri di quella classe che ne ha generato i principi, e probabilmente è scomparsa pure dal paese reale. Del resto non sono qui a richiamare la dittatura del proletariato né la collettivizzazione delle fabbriche, ma, magari, un po' di liberalizzazioni dove ci sono le lobby e qualche nazionalizzazione dove ci sono stati un po' troppe beneficenze statali, un po' di caro vecchio compromesso social-democratico fatto di spesa pubblica a sostegno della produttività. Misure che alla lunga avrebbero convinto pure i mercati, magari anche nell'immediato di un'elezione, se ben propagandati. Certo è che non si poteva sbagliare, e questi personaggi, invischiati come sono nelle loro beghe hanno pensato bene (riconosciamogli almeno l'onestà intellettuale) di non potercela fare.
Una sconfitta politica, dunque: o meglio, una resa incondizionata. Stiamo vivendo una crisi tremenda, ma endemica al nostro sistema economico. Il capitalismo è per sua natura portato a sviluppare crisi periodiche, specie nella sua degenerazione finanziaria: dagli anni Ottanta ad oggi la finanza emersa e sommersa dell'asse bancario Wall Street-Londra ha creato ad hoc bolle speculative che hanno sostenuto e danneggiato tutte le fasi della crescita economica sparsa per il mondo negli ultimi trent'anni. Allo scoppio di una bolla, si sopperiva con la nascita di un'altra, verso cui deviare le obbligazioni gonfiate: e via così. Le banche hanno attuato questa pratica sui mercati stranieri fino ad arrivare  in Europa e negli stessi USA capendo di poterlo fare senza soccombere, perché ormai detengono la valuta, detengono i nostri debiti, e "non possiamo" permetterci di lasciarle fallire. Hanno creato ricchezza virtuale, ma in quei numeri c'è il lavoro di tutti noi, e nessuno vuol perderlo. E allora comandano loro, e mettono Monti al governo per risolvere i problemi. E che cosa fa il buon impiegato della Goldman Sachs? "Stranamente" fa austerity. Facile e giustificabile, la crisi c'è, bisogna tagliare tagliare tagliare.
FALSO!
La politica è in tutto, e tutto è politica. Fare Austerity vuol dire perpetrare un pensiero economico vecchio di trent'anni, il pensiero delle politiche neoliberiste che hanno affossato il keynesismo che, pur con i suoi difetti, aveva risollevato l'europa post-bellica, creato produttività, diffuso ricchezza e welfare. Il sistema che ha garantito la formazione dei nostri padri, ha posto le basi del nostro stato sociale, ha permesso di raggiungere diritti ed equità. Non un sistema perfetto, ma un sistema che nei primi anni '80 è stato combattuto dall'1% più ricco della popolazione che non voleva condividere il suo benessere ed il suo potere. La manovra partorita dall'esecutivo di Monti ieri è il vessillo di questa politica economica, e non riesco a credere che il fior fiore della intellighenzia tricolore non potesse produrre di meglio.
Ancora una volta abbiamo ciò che ci meritiamo: i più ricchi gestiscono il mondo a loro piacimento perché hanno saputo addormentare per bene i deboli. Impegnarsi nei movimenti vuol dire essere dei comunisti, dei violenti, essere fuori dalla democrazia. Stare nella democrazia vuol dire, invece, scuotere la testa e votare sì. Io invece credo che, rimossa l'anomalia berlusconiana, bisogna riappropiarsi della politica e della democrazia. Non si può più essere bollati con etichette affrettate se si esprime un pensiero scendendo in piazza: un'idea è un'idea e come tale deve essere rispettata nella sua intonsa, perfetta, formidabile consistenza iperuranica. Alle istituzioni sta il compito di valutarne il peso, che deve essere proporzionale alle persone che scendono in piazza, e soprattutto sta il compito di rispettare quell'idea. Scontrandosi con la realtà l'idea farà il suo iter democratico, ma che lo faccia.
 Io, per esempio, piuttosto che bloccare gli assegni delle pensioni per due anni a gente che magari ha sulle spalle nipoti che non trovano lavoro, avrei tassato i prodotti finanziari agli speculatori che creano ricchezza virtuale. La mia è solo un'idea. Se nessuno la porta avanti non possiamo lamentarci di nulla. Non posso lamentarmi di nulla.

14/10/11

Gramsci for Vendetta

 Dal web ai manifesti per le strade, passando per sporadici passaggi televisivi. L'anticipo si è giocato in parecchie piazze la settimana scorsa, quando gli indignati italiani, armati di vernice, hanno protestato contro le banche, contro i simboli del ricatto che l'economia capitalista, nella sua evoluzione finanziaria, gioca nei confronti dei governi del mondo. I lanci di vernice contro la sede milanese di Moody's, una delle principali agenzie di rating che ha declassato l'Italia, è stato quanto mai simbolico e rappresentativo del momento che stiamo vivendo. Molti manifestanti erano giovani studenti, e alcune interviste dimostrano che non era molto chiaro agli stessi che cosa effettivamente fosse Moody's, che cosa significasse "agenzia di rating", ma ciò non rende la protesta meno efficace, meno credibile. E', anzi, la fotografia più veritiera del sistema in cui viviamo, un sistema economico che ha ceduto al mondo della finanza. Sono oramai tre decenni che viviamo in un sistema sganciato dalla realtà: gli anni '80 e '90 sono stati contrassegnati da tassi di crescita irreale, abbiamo goduto di una ricchezza inesistente, ci siamo abituati ad un tenore di vita globalmente insostenibile. Le case, le TV, i vestiti, le vacanze di quegli anni, è come se fossero state pagate coi soldi del monopoli. Il neoliberismo si è propagato sull'onda di bolle speculative progressive, la cui esplosione era coperta dalla speculazione su nuovi mercati, su nuove aree economiche. Quando le banche hanno capito che potevano evitare i danni di simili esplosioni anche quando avvenivano nel cuore dell'economia capitalista, cioè l'Europa e gli USA, sono iniziate le speculazioni sui mercati tecnologici e su quelli immobiliari. Ricchezza finta, virtuale, basata su strumenti finanziari che mettono alla prova le capacità matematiche dei migliori economisti: nulla di più lontano dal mondo reale. Perché uno studente, un uomo medio, dovrebbe capire cos'è un'agenzia di rating? Tanto per capirci, le agenzie di rating sono quelle che hanno dato valutazioni AAA alle obbligazioni prodotte dalle banche americane nel 2008, alla vigilia dell'esplosione della bolla dei famigerati Subprime. Erano d'accordo, davano valutazioni positive in cambio di commissioni. Ci hanno perso la faccia, ma non i soldi. Quelli li stiamo perdendo noi. Il mondo è nelle loro mani, è il loro giocattolo, e noi possiamo sbatterci quanto vogliamo, Berlusconi o non Berlusconi, ma i governi sono tutti sotto scacco da parte di queste istituzioni. E allora? E allora ci incazziamo. Agenzie di rating? Non capirò mai cos'è e come funziona e per chi lavora o con quale autorità, ma ho capito che per quanti sacrifici faccio per studiare, dare i miei esami, lavorare nel tempo libero per comprare i libri, pagare la retta, pagare l'affitto, pagare le bollette, e magari, ogni tanto, vivere i miei vent'anni, sarà sempre nelle loro mani il mio futuro. Se tutto passa per i soldi che ho in tasca, continuerò ad essere ricattato da loro. Non sarò mai più libero, e questo mi indigna.
Poi vedo che a questo ricatto si aggiunge l'incompetenza. Apro il mio browser, accendo la mia TV, sfoglio il giornale, e vedo che chi può decidere, quelli a cui abbiamo delegato il compito di passare le loro giornate ad amministrare le nostre vite, non fanno che prenderci in giro. Rendono ancora più difficili i miei sacrifici per studiare e pagarmi la retta e l'affitto, rendono ancora più difficile che io trovi una motivazione per fare questi sacrifici, visto che non c'è futuro per me, che vorrei realizzarmi guadagnandomi da vivere applicando le conoscenze che ho sviluppato seguendo le mie inclinazioni. Sciocco che sono. Una ragazza con un bel fisico che si presta a destra e a manca per arrivare a fare la soubrette in un programma di dubbia comicità, arriva facilmente ad amministrare una regione. Io che impiego il minimo del tempo per laurearmi col massimo dei voti devo spendere tempo e denaro per fare gratis il mestiere che più mi piace, che mi fa sentire realizzato.
Le nostre strade sono tappezzate di volti fumettistici di Guy Fawkes, simbolo mutuato da un film a sua volta mutuato da una graphic novel. Avrei preferito che il simbolo fosse, che ne so, Gramsci, che per primo ha denunciato il fordismo, aveva intuito tutto in anticipo. Il 15 ottobre scende in piazza il popolo, per una lista innumerevole di motivi tale che è sufficiente elencare poche parole chiave: scuola, casta, riforme, servizi, tasse, ricerca, sviluppo. Non importa qual è il simbolo. Non importa più. La gente è incazzata. Anche gli italiani. Finalmente.

29/09/11

Gli amici vicino, i nemici ancora più vicino...


 Chi ha detto che questo governo non ci rappresenta? A dare un'occhiata alla solidità della maggioranza, c'è da scommettere che non resisterebbe facilmente ad uno “stress test”, al pari della nostra economia. Peccato che le opposizioni, bontà loro, non siano in grado di produrne. Ma andiamo con ordine.
Il 24 settembre, mentre era a Washington con i suoi pari del G20, Giulio Tremonti replica alle accuse dei berluscones portata dai soliti giornali liberi (nei nomi, almeno) senza smentite, che ne invocavano la testa per la sua assenza in aula in occasione del voto su Milanese. Evidentemente, in un momento e su temi in cui l'alleanza tra Pdl e Lega appare tutt'altro che “sempreverde”, è apparso conveniente sobillare le attenzioni dei liberi lettori di giornali contro il ministero con gli occhi più addosso di tutti, in una fase di manovre impopolari. Del resto il miglior presidente della storia d'Italia col Ragionier Giulio ha sempre coltivato un rapporto di catulliana memoria, ma stavolta è stato il Ministro a recitare la parte della sfuggente Lesbia e provocare il cavaliere dichiarando: "Io sono qui a lavorare per l'interesse del Paese e Silvio che fa? Mi vuole sfiduciare? Se ne ha la forza mi cacci, provino a farlo, se ne sono capaci". E dopo lo sfogo torna a tessere rapporti con i colleghi internazionali e le istituzioni dell'FMI. Da parte sua sa bene che la leadership di Berlusconi non è più solida come un tempo, e di certo il Quirinale disapproverebbe un cambio della guardia a rallentare le operazioni di un Ministero quanto mai strategico.
Nei giorni seguenti, tra le sordide notizie di meretrici, faccendieri e picciotti, nella salubre aria di quel bel posto che è Montecitorio la tensione al vertice si è attenuata. Il 27 settembre, uscendo da un lungo vertice di maggioranza di due ore a palazzo Grazioli, le dichiarazioni ufficiali recitano un secco “Il lavoro è stato molto positivo”. Tanto basta per considerare l'ascia di guerra deposta e lasciare al premier l'incombenza di trattare con la Lega sulle pensioni. Nemmeno un attimo di pace, povero Silvio, e del resto di una pura tregua si tratta, contingentata all'urgenza di stilare il decreto sviluppo: il parto è stato annunciato entro due settimane.
Oggi, 29 settembre, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, ha ribadito che in un unico Consiglio dei Ministri il 13 o il 14 ottobre (premesso che ci si occuperà prima della assai più urgente questione delle intercettazioni) sarà varato il decreto sviluppo e si sceglierà il successore di Mario Draghi alla guida di Bankitalia. “Abbiamo formato una commissione partito-gruppo per presentare a Berlusconi, Letta e Tremonti le nostre proposte”, ha detto Lupi, quasi a voler trasmettere una rinnovata solidità dell'intellighenzia pidiellina.
Ma oggi è stato anche il day-after del voto di fiducia al Ministro dell'Agricoltura Romano, e se in aula la Lega si è dimostrata solidale con gli alleati e sulle poltrone, la base trema. Sì, perché tra le sue mille contraddizioni ideologiche, gli elettori del carroccio sono pur sempre quegli omoni veraci, duri e puri che sputano sul tricolore di Roma Ladrona. A farsi portavoce del dissenso con una lettera al Corriere della Sera, il sindaco di Macherio, Giancarlo Porta. E lo fa senza peli sulla lingua. “Ho anch’io i miei sospetti sui mille interessi della Lega – scrive – ma ormai la tenaglia probabilmente ricattatrice del premier ci sta portando alla deriva, sia come Italia che come Lega”. Dopo il caso di Milanese ripetutosi con lo stesso copione per Romano, il timore è che si vanifichino tutti gli sforzi per associare l'azione di un ministro come Maroni alla performanza dell'azione antimafia, e la sensazione è che risultati come quello delle amministrative di Milano non possano registrarsi come dissociati da questi giudizi. C'è da giurarci: se non vuol veder sfumare i clamorosi progressi percentuali del suo partito, Bossi o chiunque altro abbia un minimo di senno (?) ai vertici, non potranno ignorare questi malumori a lungo e alla prossima chiamata della base dovranno staccare la spina al Berlusconi IV.
Davvero una brutta gatta da pelare per l'Highlander di Arcore. Come biasimarlo se alla sera, stressato com'è, cerca conforto in qualche massaggino? Per fortuna Bersani & Co., almeno loro, non gli danno pensieri...

20/09/11

Tremonti e il libretto rosso (degli assegni)


Nel giorno in cui Standard&Poor’s declassa il rating dell’Italia (da A+ ad A), l’entità dello spread dei titoli di stato tricolore con i Bund tedeschi sale a circa 390 punti. Una forbice che ha toccato anche picchi peggiori in questo finale di estate quanto mai torrido per la nostra economia. La scarsa fiducia dei mercati aveva reso i nostri Btp e Cct perfino meno appetibili di quelli spagnoli: evidentemente le nostre prospettive di crescita ed il nostro governo appaiono anche meno affidabili di quelle della Spagna di Zapatero in balìa degli indignados.
Dopo aver incassato l’approvazione dell’Europa sulla super-manovra di emergenza approvata dal Parlamento, la Bce ha acquistato un quantitativo di titoli di stato sufficiente a darci una boccata di ossigeno. Ma non basta. Lo stesso Mario Draghi, designato a presiedere l’istituto bancario centrale dell’Unione a partire da novembre, non ha preannunciato favoritismi per il nostro Paese, sottolineando, anzi, il carattere di emergenza, e quindi temporaneo, delle misure concesse al nostro Tesoro.
In tempi di crisi globale il mercato, le cui fluttuazioni molto devono al fattore psicologico, ha un vitale bisogno di segnali di fiducia. L’Italia le ritrova inaspettatamente in Cina. La missione italiana è iniziata ad agosto, quando il direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, viaggiò in Oriente per proporre ai fondi sovrani cinesi e ad investitori di Hong Kong e Singapore di investire nei nostri titoli di Stato. L’interesse si accese, ma, di fronte alla situazione economica europea in generale ed italiana in particolare, i cinesi chiedevano garanzie. Il 6 Settembre si è mosso il ministro Tremonti in persona, incontrando a Roma una delegazione della China Investment Corporation (Cic), uno dei maggiori fondi sovrani d’investimento mondiali, guidata dal loro presidente Lou Jiwei.
Proprio oggi AGICHINA 24 riporta una dichiarazione del portavoce del ministro degli Esteri cinese Hong Lei: “Riteniamo che l'Europa abbia la capacità e l'intenzione di superare le attuali difficoltà e di lasciarsi alle spalle la crisi e ci auguriamo che sappia difendere gli investimenti cinesi”. Un’iniezione di fiducia per le trattative avviate dal nostro ministro perché Pechino non regredisca dall’acquisire una quota significativa di buoni del tesoro italiani.
Non c’è assolutamente nulla di male in tutto questo, anche perché i cinesi detengono già titoli italiani per 90 miliardi e, più in generale, un quarto del debito estero detenuto da Pechino è in euro: nulla di strano che i cinesi, che dalla crisi del 2008 sono tra i pochi a potersi permettere investimenti importanti, cerchino di evitare che l’euro collassi.
Più grave, forse, che il regime psicologico protezionista e da caccia alle streghe abbia spinto i vertici della nostra economia verso Levante solo in un contesto di crisi così acuta. Non a caso, quando si è diffusa la notizia sulle mosse di Tremonti, l’ex-Premier Romano Prodi, che si trovava proprio in Cina per tenere una serie di conferenze presso l’Università di Pechino in qualità di esperto di economia, ha commentato con un laconico “meglio tardi che mai”. "Non ci voleva un genio per capire cosa era la Cina - continua Prodi a Radio 24 - Se non si è in Cina è come non avere i piedi nel mondo". Un ritardo, quello italiano, che era stato precedentemente rimarcato pure da Luca di Montezemolo, che nell’occasione accusava Silvio Berlusconi di non essere mai andato né in Cina né in India.
Del resto in Italia siamo in un regime di “emergenza costante”, sempre lungi dalle soluzioni programmatiche. Ma questa volta potremmo pagarla cara. Sì, perché una mossa tanto fuori tempo (non avendo margine di trattativa) ci ha costretti ad aprire senza fare troppe storie agli investimenti cinesi non solo i nostri titoli, ma anche l’economia reale. Il mercato cinese non sarà più per molto tempo il mercato delle brutte copie: il costante arricchimento sta creando una superclass dal palato fino. E il made in Italy potrebbe diventare un boccone prelibato a buon mercato.