Nel giorno in cui Standard&Poor’s
declassa il rating dell’Italia (da A+ ad A), l’entità dello
spread dei titoli di stato tricolore con i Bund tedeschi sale a circa
390 punti. Una forbice che ha toccato anche picchi peggiori in questo
finale di estate quanto mai torrido per la nostra economia. La scarsa
fiducia dei mercati aveva reso i nostri Btp e Cct perfino meno
appetibili di quelli spagnoli: evidentemente le nostre prospettive di
crescita ed il nostro governo appaiono anche meno affidabili di
quelle della Spagna di Zapatero in balìa degli indignados.
Dopo aver incassato l’approvazione
dell’Europa sulla super-manovra di emergenza approvata dal
Parlamento, la Bce ha acquistato un quantitativo di titoli di stato
sufficiente a darci una boccata di ossigeno. Ma non basta. Lo stesso
Mario Draghi, designato a presiedere l’istituto bancario centrale
dell’Unione a partire da novembre, non ha preannunciato favoritismi
per il nostro Paese, sottolineando, anzi, il carattere di emergenza,
e quindi temporaneo, delle misure concesse al nostro Tesoro.
In tempi di crisi globale il mercato,
le cui fluttuazioni molto devono al fattore psicologico, ha un vitale
bisogno di segnali di fiducia. L’Italia le ritrova inaspettatamente
in Cina. La missione italiana è iniziata ad agosto, quando il
direttore generale del Tesoro, Vittorio Grilli, viaggiò in Oriente
per proporre ai fondi sovrani cinesi e ad investitori di Hong Kong e
Singapore di investire nei nostri titoli di Stato. L’interesse si
accese, ma, di fronte alla situazione economica europea in generale
ed italiana in particolare, i cinesi chiedevano garanzie. Il 6
Settembre si è mosso il ministro Tremonti in persona, incontrando a
Roma una delegazione della China Investment Corporation (Cic), uno
dei maggiori fondi sovrani d’investimento mondiali, guidata dal
loro presidente Lou Jiwei.
Proprio oggi AGICHINA 24 riporta una
dichiarazione del portavoce del ministro degli Esteri cinese Hong
Lei: “Riteniamo che l'Europa abbia la capacità e l'intenzione di
superare le attuali difficoltà e di lasciarsi alle spalle la crisi e
ci auguriamo che sappia difendere gli investimenti
cinesi”. Un’iniezione di fiducia per le trattative avviate dal
nostro ministro perché Pechino non regredisca dall’acquisire una
quota significativa di buoni del tesoro italiani.
Non c’è assolutamente nulla di male
in tutto questo, anche perché i cinesi detengono già titoli
italiani per 90 miliardi e, più in generale, un quarto del debito
estero detenuto da Pechino è in euro: nulla di strano che i cinesi,
che dalla crisi del 2008 sono tra i pochi a potersi permettere
investimenti importanti, cerchino di evitare che l’euro collassi.
Più grave, forse, che il regime
psicologico protezionista e da caccia alle streghe abbia spinto i
vertici della nostra economia verso Levante solo in un contesto di
crisi così acuta. Non a caso, quando si è diffusa la notizia sulle
mosse di Tremonti, l’ex-Premier Romano Prodi, che si trovava
proprio in Cina per tenere una serie di conferenze presso
l’Università di Pechino in qualità di esperto di economia, ha
commentato con un laconico “meglio tardi che mai”. "Non ci
voleva un genio per capire cosa era la Cina
- continua Prodi a Radio 24 - Se non si è in Cina
è come non avere i piedi nel mondo". Un ritardo, quello
italiano, che era stato precedentemente rimarcato pure da Luca di
Montezemolo, che nell’occasione accusava Silvio Berlusconi di non
essere mai andato né in Cina né in India.
Del resto in Italia siamo in un regime
di “emergenza costante”, sempre lungi dalle soluzioni
programmatiche. Ma questa volta potremmo pagarla cara. Sì, perché
una mossa tanto fuori tempo (non avendo margine di trattativa) ci ha
costretti ad aprire senza fare troppe storie agli investimenti cinesi
non solo i nostri titoli, ma anche l’economia reale. Il mercato
cinese non sarà più per molto tempo il mercato delle brutte copie:
il costante arricchimento sta creando una superclass dal palato fino.
E il made in Italy potrebbe diventare un boccone prelibato a buon
mercato.
Vorrei far notare la finezza grammaticale dell'accento su balìa, che lo differisce da balia.
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